Stato liberale
“Lo Stato basato sulla libertà deve reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri”. Autore: Gustavo Zagrebelsky
«Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà»: così il celebre dictum del costituzionalista E.W. Böckenförde, assurto a manifesto ideologico di quanti sostengono l’incapacità delle democrazie liberali di sopravvivere a se stesse e la necessità della religione come loro presupposto. Attira la nostra attenzione l’uso del verbo "potere": "presupposti che non può garantire". Sono possibili due comprensioni: non può perché non ci riesce de facto, o perché non gli è lecito de iure. Nel primo senso, la proposizione è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è notevole, anche rispetto alle conseguenze.
L’accento cade innanzitutto sull’impossibilità de facto e da cui deriva un fosco vaticinio. Il focus sta negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si troverebbe la ragione del deficit delle forze che "tengono unito il mondo" e "creano vincolo" sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi retorici: «Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalle religione non è e non può più essere essenziale per lui? È possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini?».
L’accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle aspettative di "bella vita", getta una luce particolare sul significato catastrofistico di queste domande.
Uno Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria legittimità, ad accrescere illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi da sé in una spirale mortale di aspettative d’ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere.
Non sono affermazioni originali. In una forma o in un’altra, le troviamo nella letteratura anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria, dall’Ottocento a oggi. Ora, però, l’impotenza dello Stato basato sulla libertà, come impotenza de facto, è ricondotta anche all’impossibilità de iure. Questo Stato non può cercare di rinsaldare l’ethos di cui ha bisogno percorrendo la strada a ritroso verso la res publica christiana. Non può farlo perché così rinnegherebbe se stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza, l’uguaglianza, il pluralismo: tutti principi dati per acquisiti. Dunque, l’impotenza di cui parliamo comprende entrambi i significati del "non può", l’esistenziale e il normativo. Le premesse di cui abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini, e tra questi ovviamente anche i cittadini cristiani in nome della loro fede, a dover assumere l’habitus etico necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla libertà. Sono i cittadini a potere e dovere garantire gli impulsi e le forze di unificazione interiori di cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi) essere lo Stato poiché, nelle sue mani, la religione diventerebbe instrumentum regni.
La ricezione di queste posizioni, attraverso una lettura semplificante del dictum sopra ricordato, non è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci fosse un certo margine di ambiguità. La ricezione è avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà – in quanto Stato, non in quanto società – non può di fatto, con le sue sole forze, darsi i propri presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato, legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo. Questa diversa interpretazione del "non può" è rappresentata in modo efficace dalle parole, scritte dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984: dalla tesi che l’attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta e perciò vive di presupposti «che esso stesso non può garantire» deriverebbe che esso ha bisogno di forze dall’esterno che lo sostengano. Le uniche forze disponibili sarebbero quelle del cristianesimo e con queste lo Stato potrebbe e dovrebbe stringere alleanza, un’alleanza, per sovrappiù, che assume il colore di una certa sottomissione: chi accetta che un altro getti le basi che garantiscono la sue esistenza non deve accettare anche la dipendenza da questo altro? La Chiesa pone la sua candidatura, in quanto afferma la propria "rilevanza pubblica assoluta" e rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata dalle coscienza. Lo stesso Ratzinger, però, mette in luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a un’aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato l’accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi». Poiché tuttavia "nell’attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso" – così prosegue Ratzinger – "la pretesa di riconoscimento pubblico della fede [cattolica] non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla tolleranza) non si potrebbe dedurre la piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico". Onde, conseguentemente, la richiesta di uno status differenziato, a favore della religione cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che inizia riguardando la questione dei simboli, ma si estende facilmente al sostegno delle scuole cattoliche, all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, al finanziamento agevolato delle sue attività, per finire a una sorta di diritto d’ultima parola nelle questioni legislative che hanno rilievo per l’identità cristiana dello Stato.
Böckenförde dice di prendere le distanze. A me, sinceramente, non pare. L’ordine pubblico di una situazione costituzionale pluralista – dice – non può appiattirsi sull’ethos di una sola religione: tutte le religioni e confessioni devono essere incluse nel diritto di avere e proclamare, in pubblico e in privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non deve comportare la pretesa di un livellamento dell’impronta religiosa che assicura l’identità dello Stato. "Livellamento" è una parola che suona male e, soprattutto, può significare una cosa che nessuno richiede: un’azione di forza che mai, in una società libera, sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo livellamento con uguaglianza, ci si accorge che questo è per l’appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché l’ordine pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato secolare fondato sulla libertà, tutte le fedi, tutte le religioni, tutte le credenze anche non religiose o antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza ed è questo che costituisce "l’impronta" di questo tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è contraddittoria e pericolosa l’affermazione di Böckenförde, che ha fatto su di me molta e negativa impressione, che «le minoranze religiose debbano vivere nella diaspora». Dire così significa negare l’esistenza di un comune e unico vincolo di cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e politici differenziati, a favore dei membri della religione di maggioranza, secondo esperienze del passato di infelice memoria. Come si possa sostenere questo genere di posizioni e, al tempo stesso, non contraddire l’esigenza di "assoluta neutralità" dello Stato, esigenza che costituisce certamente il contenuto minimo necessario di qualsiasi concezione della laicità, e come in tal modo non si neghino i fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è per me – lo confesso – un mistero.
Anche una seconda proposizione merita di essere indagata: «Fino a che punto i popoli uniti in stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà?»
Qui, l’attenzione cade su quel "precedere". Se la garanzia precede la libertà, non può che essere un legame che viene da fuori, non dall’autonomia dei singoli: un legame in qualche modo indotto, se non imposto, per via di autorità. La Chiesa, ammesso ch’essa possegga la riserva delle risorse etiche, potrebbe allora legittimamente chiedere che le si assicurino i mezzi per farle valere vincolativamente. Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere in questa offerta di collaborazione qualcosa di oltraggioso nei confronti della religione di Gesù di Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il teorico secentesco della ragion di Stato, dello Stato della Controriforma: «Tra tutte le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la ragion di Stato, fratel mio, obedir alla Chiesa cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio Cesare Capaccio, nel 1634.
Non risulta facilmente comprensibile come questa "precedenza" del legame unificante si accordi con l’altra affermazione di Böckenförde, questa sì pienamente conforme all’idea dello Stato secolare basato sulla libertà, che «la religione si dispiega […] nella società civile e nel suo ordinamento» e che da lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato, quale «organizzazione vincolante dell’umana convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti nessun bisogno di postulare un legame unificante che "preceda la libertà": esso si formerebbe infatti, precisamente, nella libertà.
È in questa "precedenza" che si annida la questione. Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale – l’odierno Stato secolare basato sulla libertà –, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile. Il problema non sono i credenti ma è la Chiesa, quando chiede e ottiene alleanza con lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente, il problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa questa alleanza interessata. Noi, in Italia, conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno e lo conosciamo nella forma più esplicita, quella del Cattolicesimo "religione di Stato", esistente fino a subito prima della Costituzione repubblicana, dallo Statuto Albertino fino al fascismo.
L’idea di un legame sostanziale unificante precedente la libertà corrisponde a un’idea di democrazia protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità dell’essere umano; sull’autodeterminazione delle persone sottoposte a trattamenti medici forzati, ecc., la Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale contengono indicazioni certo non trascurabili, per chi pensa che i fondamenti etici della convivenza siano da ricercare nella libertà; invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona "precedendo" l’esercizio della libertà che ha portato alla formulazione dei principi della Costituzione. Così come, più in generale, sono ignorati sia il principio di laicità sia i suoi contenuti, quali determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le divagazione su "nuove", "sane" ecc. laicità che provengono numerose da ambienti ecclesiastici e si riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte in cui si discute di politica ecclesiastica, sembrano non conoscere o, almeno, non tenere in conto i vincoli costituzionali, come il principio di equidistanza e il divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni religiose per rafforzare le obbligazioni civili e, al contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La proposta del cristianesimo come legame unificante precedente contraddice precisamente questa separazione.
Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque, per così dire, reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un problema che non può essere trascurato. Ma è un problema sociale, non politico o statale. Si dirà: il legame tra la religione e la politica e quindi lo Stato è un legame profondo, tutt’altro che accidentale. Lo si vede all’opera dalla preistoria fino quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può apparire che lo Stato secolarizzato dell’Europa occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto una deviazione, un Sonderweg, secondo l’espressione di Jürgen Habermas, destinato in breve a rientrare. E perfino il più radicale movimento politico fondato sull’immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito l’esigenza di divinizzare il suo regime. Invece, le società secolari odierne basate sulla libertà pensano di farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la rinuncia a usare un Dio per i propri fini politici non è forse, precisamente, la grande sfida ch’esse hanno accettato "per amore della libertà"?
(Da la Repubblica, 17 ottobre 2007)
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