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lunedì 25 aprile 2011

Autodeterminazione

Roberta De Monticelli risponde a mons. Betori e ribadisce il suo addio alla Chiesa cattolica.

Intervista di Emilio Carnevali

Il giorno dopo la pubblicazione sul Foglio del suo “addio” alla Chiesa cattolica, mons. Betori ha voluto risponderle su Avvenire. L’ex segretario della Cei prende le distanze da una posizione che – a suo avviso – gli viene cucita addosso “senza fondamento”. Afferma che la “libertà della coscienza” non può essere confusa con la “possibilità di fare quel che ci pare”. Mentre la prima è la “sede della nostra scelta” – e come tale non può essere contestata – la seconda è un criterio – che non può essere condiviso – dell’azione. Cosa pensa di questa “difesa” delle proprie tesi operata da mons. Betori?
A me pare incredibile che un termine di radice kantiana, come “autodeterminazione” – una variante di “autonomia”, vale a dire “libera soggezione alla legge morale” – possa essere inteso nel senso della “possibilità” (vale a dire, immagino, “liceità morale”) di fare quello che ci pare. Eppure devo arrendermi all’evidenza: non soltanto Mons. Betori, che comunque ringrazio di essersi impegnato in un’esplicita risposta, ma anche altri, nei loro contributi al dibattito che si è aperto, sembrano affermare questa stessa tesi: libertà di coscienza sì, principio di autodeterminazione no. Occorre dunque procedere con la massima chiarezza, non dando assolutamente niente per scontato, e individuare esattamente il luogo del contrasto. Dunque: una prima risposta, limpida ed efficace nella sua brevità, è quella di Vito Mancuso, che ringrazio per essere teologo cattolico e insieme assolutamente estraneo a quella tecnica dell’ambiguità, dello stirare il senso delle parole fino a far loro dire tutto e il contrario di tutto, che se da un lato smorza i conflitti, dall’altro rende impossibile pensare con chiarezza, ed esercitare già fin nell’uso delle parole quella responsabilità personale (rendersi conto di quello che diciamo, farsi carico di giustificarlo) senza cui non c’è etica. Ecco la risposta di Mancuso: “in che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di autodeterminazione? Che cosa se ne fa un uomo di una coscienza libera a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando su se stesso?”.
Ma se non si snida l’equivoco che sta dietro questa opposizione che anche Mancuso riconosce falsa, tutto resterà com’è: un gioco teatrale a colpi di slogan, parole sequestrate dalle opposte ideologie. Occorre dunque fare un po’ di chiarezza sui fondamenti.
Scrive Mons. Betori: “Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna”. Bene: qui – forse per brevità – l’espressione “libertà di coscienza” è curiosamente usata come sinonimo di “libero arbitrio”, come chiarisce l’ultima frase. Se l’assassino non godesse di libero arbitrio, cioè della capacità di auto-determinarsi consapevolmente a un’azione, in presenza di alternative, non potrebbe esserne responsabile, dunque nemmeno imputabile, come non lo sarebbe una tigre. Dunque per essere imputabile e punibile giuridicamente, oltre che moralmente responsabile, l’assassino deve essere certamente anche in grado di autodeterminarsi, e questo lo dice Mons. Betori e non io! Ma non ho nulla da obiettare. Altra faccenda è se si possa descrivere un ordinario assassinio come un caso di azione conforme alle convinzioni e ai più vagliati sentimenti morali dell’agente. Conforme cioè alla sua coscienza morale – perché di questo io parlavo. Io non lo credo, e mi trovo in questo in buona compagnia con l’intera tradizione platonica, patristica, scolastica e perfino biblica: è in qualche modo un’assenza, non una pienezza di coscienza morale (“cuore indurito”, “cecità”, “non sanno quel che si fanno”) ciò che sta alla base dell’azione moralmente illecita. Purtroppo, perché l’esempio di Mons. Betori sia pertinente, occorre invece credere che non ci sia nessuna differenza essenziale fra l’assassino e la persona che, magari dopo aver vagliato fino all’estremo limite di scrupolo e onestà il dettato della propria coscienza morale (se posso fare un esempio per chiarezza: come nel caso di Mina Welby), fa una sua scelta, conforme a questo dettato. A me la convinzione che tra questi due casi non ci sia alcuna differenza essenziale continua a sembrare un esempio di nichilismo. Ma anche Mons. Betori è in buona compagnia, come ciascuno può verificare andandosi a rileggere la dostoevskiana Leggenda del Grande Inquisitore, dove il “nichilismo pietoso” del protagonista tende la mano agli uomini-bambini: incapaci di distinguere il bene e il male, incapaci di sopportare il peso delle proprie scelte, incapaci di convinzioni valoriali e morali. E rimprovera Cristo: “E’ forse costituita in modo, la natura umana, che...nei momenti dei più tremendi, dei più laceranti e fondamentali quesiti dell’anima, possa rimanersene sola con la libera decisione del cuore?”

Quando però Betori afferma che il “principio di autodeterminazione” non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa in fondo ha ragione…
Se è per questo le cose, in effetti, non sono andate molto meglio con la libertà di coscienza, che il Magistero ecclesiastico riconobbe soltanto in chiusura del Concilio Vaticano II (Dignitatis humanae): e riconobbe allora anche la raggiunta maturità morale dell’uomo, della persona umana in quanto tale. Riconobbe cioè la dolce luce dei Lumi e di Kant, sia pure con un paio di secoli di ritardo e dopo le condanne veementi del 1832 (Gregorio XVI, “Mirari vos”), del 1864 (Pio IX, il Sillabo), o l’incredibile eppur reale scomunica al senatore del Regno Alessandro Manzoni. Ma a me pare che l’antimodernismo odierno sia molto più avvolgente e sinuoso, molto più … avvelenato, mi si perdoni la parola, perché legato a filo doppio con una rinnovata tendenza a sabotare i fondamenti di una cultura della responsabilità personale. Quella che è sempre mancata al nostro Paese, e la cui mancanza produce il disastro civile e morale cui assistiamo quotidianamente. Una tendenza che ha oggi davvero del diabolico, perché – insisto – affonda la sua radice nuova in pieno nichilismo.
Non ho citato a caso il Grande Inquisitore, benché io sia convinta che questa figura dostoevskiana non si riduca affatto al rappresentante per antonomasia della Chiesa cattolica, certamente non amata da Dostoevskij. Il Grande Inquisitore potrebbe ben figurare fra i grandi disincantati cui si rivolge lo Zarathustra di Nietzsche, coloro che “hanno visto tutto”, ma non hanno ancora forse superato la compassione per l’uomo. Non lo dico per divagare con la letteratura, ma per sottolineare la differenza fra l’antimodernismo tradizionale della Chiesa e quello, diciamo, recente, cioè posteriore al (neutralizzato) Concilio Vaticano II. E’ vero, Monsignor Betori parla di una“cultura dell’autodeterminazione che va contro le radici cristiane della nostra cultura”, e in questo modo sottolinea la continuità fra la Chiesa che si è opposta, fino al Concilio Vaticano Secondo, anche alla libertà di coscienza - e quella che è venuta dopo. Ma guardate come il Magistero interpreta oggi quella “libera decisione del cuore” che – possiamo dubitarne? – è condizione necessaria perché un atto abbia valore morale positivo. La interpreta esattamente come fa il Grande Inquisitore. Cioè come fosse la pretesa di creare, con la propria decisione, il bene e il male. Come fosse la pretesa che ciò che io decido sia bene, tale sia anche. Che è esattamente il contrario di ciò che da anni vado dicendo, e questo è pochissimo importante; ma soprattutto – e questo invece è madornale – è il contrario di quello che ci fa intendere il Cristo quando dice “Thalita kumi”, “svegliati fanciulla”. Quando chiede all’anima di risvegliarsi, di vedere e sentire quanto belli possono essere i gigli dei campi o quanto male è dare scandalo a un bambino, e di rabbrividire di questi atti perché sente e vede (“chi ha orecchi per intendere…”), e non perché un altro o la Sharia o una legge dello stato glielo comanda. Ma oltre al Cristo, è il dolce lume della nostra maturità morale, orrendamente tradito dai relativismi, i fideismi tragici, i nichilismi, i decisionismi, le teopolitiche totalitarie del secolo scorso, che ci chiede di fondare la norma morale sulla percezione di valore, su un vederci chiaro del cuore e della mente, e non sull’autorità di un altro, fosse pure il Papa. A meno che non ci si venga a dire – perché davvero le sorprese non hanno fine – che per la bontà di un’azione non conta che il cuore vi assenta come a cosa giusta. Per esempio, se una donna cristiana come Mina Welby, nella sua estrema onestà e sincerità, non avesse sentito come cosa giusta, avendola vagliata in lunghi anni, che a un uomo fosse negato il diritto di rifiutare le cure, sarebbe stato moralmente valido piegarsi all’autorità che le ingiungeva di giudicarla giusta? E’ quello che Betori suggerisce: e io non dovrei considerare nichilistico un simile atteggiamento? E’ ovvio che il cuore può sbagliare, ed è verissimo che il cristianesimo ci insegna in primo luogo a dubitare di noi stessi e della trave nel nostro occhio. Vuol forse dire questo che non dobbiamo poter vagliare con la nostra testa e il nostro cuore qualunque decisione che dobbiamo prendere? E non è, come mi sembrava di aver scritto chiaramente, precisamente perché, anche dove la legge non interviene, si può agire in un modo o nel modo contrario, che agire bene (cioè secondo ciò che è moralmente dovuto) ha un valore morale, e agire santamente, cioè oltre ciò che è moralmente dovuto, può essere sublime? Ma una cosa buona o una sublime può mai farsi per forza, perché è proibito fare altrimenti? Che valore morale avrebbe un’azione fatta non per convinzione ma per rispettare la legge?
Ma torniamo al punto. E’ incredibile come uomini di Chiesa, e fra questi fini commentatori della Bibbia, accettino l’alleanza con un pensiero – come quello di quell’Odo Marquard citato da Ferrara nella sua risposta al mio intervento – per il quale la libertà di coscienza e di autodeterminazione morale equivale a bandire il trascendente dal nostro orizzonte, sostituendo il proprio arbitrio soggettivo a Dio. Questa è una tesi storicamente e filosoficamente falsa. Quando chiedo – con tutta intera la tradizione filosofica e teologica cristiana – di poter vedere le ragioni per le quali un’azione è retta (Anselmo d’Aosta) e l’opposta no, per regolarmi di conseguenza portando tutta intera la responsabilità dei miei eventuali errori, è forse perché voglio mettermi al posto di Dio, “autoprodurre il bene e il male”, come scrive il Patriarca di Venezia (“Il Foglio”, 3 ottobre 2008, articolo di M. Burini)? Ma come si può aver dimenticato che proprio al contrario, per liberare dall’arbitrio del potere e dalla sudditanza servile o infantile la coscienza morale – almeno la coscienza morale (ma anche la grazia di poter prestare ascolto al soffio del divino, per chi l’ha) abbiamo riconosciuto alla coscienza di ogni persona umana adulta, indipendentemente da sesso religione o non religione, il diritto-dovere di chiedersi in ogni istante della vita: “perché”? Questa domanda è la profonda radice comune dell’etica e della logica: e non è nichilismo quello di chi non ci crede capaci ne dell’una né dell’altra? Ma andiamo alla radice delle cose, una volta per tutte!
Oggi il linguaggio delle gerarchie, a partire dallo stesso Papa, fa leva precisamente sulla tesi che “se Dio non c’è tutto è permesso” – che è precisamente la premessa nichilistica del ragionamento del Grande Inquisitore. Il nichilismo, attenzione, non sta affatto nell’ipotesi che Dio non ci sia – ci mancherebbe! Perché se questa ipotesi, o l’ipotesi che ci sia, qualunque cosa significhino, si potessero confermare o escludere in base alla nostra ragione, non si vede cosa ci starebbe a fare la fede, o la sua assenza – in che cosa si distinguerebbero da opinioni più o meno ragionevolmente ben fondate. Il nichilismo almeno virtuale, invece, sta precisamente nell’intero condizionale – che non a caso torna e ritorna in bocca a certi personaggi dostoevskiani, o nietscheani. “Se Dio non c’è tutto è permesso” vuol dire in primo luogo, nella brutale versione ciellina, che ha il vantaggio della sincerità: “se non sei credente (anzi cattolico) sei moralmente incompetente” – sei virtualmente un assassino. Perciò io Chiesa, dato che tu non hai legge morale, chiederò allo stato di istituire norme giuridiche che sopperiscano alla tua incompetenza morale (sto quasi-citando la tesi di don Angelini, “Il Foglio”, 3.10.08, articolo di Burini). E vuol dire dunque, in secondo luogo: “Se Dio non c’è, dio sono io”. E qui il nichilismo si fa improvvisamente chiaro: quella stessa auto-deificazione che veniva imputata all’uomo moderno (e che invece l’uomo moderno ha strenuamente combattuto, fra l’altro, con la distinzione fra diritto, religione e morale e la critica radicale di ogni teopolitica, tanto è vero che fu il costituzionalista di Hitler, Carl Schmitt, e non gli eredi di Locke, a riportare in auge questo concetto) ora la si vuole rendere addirittura fonte di legislazione, radicando lo Stato e le sue leggi in una confessione religiosa. Bisogna dunque fare “come se Dio ci fosse”: non è questa la tesi del Papa? Dio – cito Giuliano Ferrara – che “come nell’antica e medievale teodicea, porta il fardello del male nel mondo, magari attraverso il suo angelo caduto”. Se no, “niente resta per la fede petrina…niente per la chiesa e per il Papa”. In chiaro: nella legge dello Stato bisogna far posto all’istituzione che rappresenta Dio, anche se non c’è. Sto citando un ateo, che continua a definirsi devoto benché sia difficile capire a cosa. Apprezzo il suo gusto per le battaglie di idee. Ma mi perdonino gli amici che mi hanno rimproverato un eccesso di aggressività, mi perdoni Ferrara stesso: questo non è cinismo, oltre che nichilismo? Affermare che la Chiesa debba governare le coscienze in nome di Dio, e governare anche le decisioni delle persone attraverso le leggi dello Stato, precisamente perché Dio non c’è? E se mi dite che la sua non è la posizione della Chiesa, allora perché molti intellettuali cattolici continuano a ribadirla, inclusa la confusione dell’autonomia morale con l’arbitrio soggettivo? E allora, finiamo di andare a fondo di questo concetto. Perché mai se Dio non c’è tutto dovrebbe essere permesso? Affermarlo è affermare che se Dio non c’è, nessuna cosa ha valore, positivo o negativo: non ci sono cose preziose e fragili che dobbiamo proteggere, non ci sono azioni orrende o anche solo gesti volgari che dobbiamo evitare, e così via. Ma come si può affermare una cosa del genere? Solo a patto che l’esistenza dei valori dipenda da quella di Dio. Ma questo è vero solo se è vero che il bene è tale perché Dio lo vuole, e non invece che Dio (se c’è) vuole il bene perché è bene. Infatti, solo dalla prima segue che se Dio non c’è non c’è niente che sia bene o male in sé. Dalla seconda non segue affatto. Dio vuole il bene perché è bene – se c’è. E se non c’è, il bene di un’infanzia felice resta tale, il male di un’infanzia straziata pure.
Fu Platone, nell’Eutifrone, a mostrare che l’alternativa che poi si chiamò “volontaristica” conduce al nichilismo, ed è la rovina dell’etica. La quale è laica o non è, esattamente per questa ragione: che deve essere sottratta all’arbitrio di coloro che parlano in nome di Dio (e ciascuno porta un dio diverso) e all’autorità non criticamente vagliata della tradizione. E concludo qui la mia risposta alla sua domanda sulla Chiesa cattolica e il principio di autodeterminazione. Tutti i Padri greci – nella misura in cui sono platonici; Agostino; Anselmo; Tommaso; il grande gesuita, libertario in metafisica, Luis de Molina; per non parlare evidentemente di filosofi altrettanto universali come Leibniz (che a mutare idea su questo punto cercò di indurre i Luterani e i Calvinisti): tutti questi maestri hanno seguito Platone nel dilemma dell’Eutifrone. Il bene non è tale perché voluto da Dio, ma Dio vuole il bene perché è bene. Solo pochi fra i filosofi del Novecento europeo – Moritz Schlick, Husserl, Scheler e gli altri fenomenologi, e almeno due grandissimi cristiani come Albert Schweitzer e Dietrich Bonhoeffer – seguirono questa via, che è naturalmente la dolce via dei Lumi.
(Devo aggiungere allora che l’”abissale” e irrazionalistico, cioè volontaristico, fideismo che Ferrara mi attribuisce mi è tanto estraneo quanto il suo vero complemento, la teopolitica?) Quasi tutti gli altri presero l’altra via, considerando “piattamente razionalistica” la tesi platonica, e adottarono le forme moderne del volontarismo: decisionismo, relativismo, fideismo. Negarono che ci fosse verità o falsità, accessibile alla sensibilità e alla ragione puramente umane, in materia di valori e norme. Legarono il giudizio di valore non all’attenta coscienza e alla (perfettibile ricerca di) conoscenza delle persone, ma alla nuda, irrazionale volontà di un soggetto – fosse un soggetto politico nell’arena di un conflitto o di una guerra, fosse questo o quel dio o destino dell’Occidente o dell’Oriente. O ultimamente, con l’ultima generazione di teopolitici, fosse una chiesa. Si poteva sperare che, con una così forte tradizione anti-volontaristica alle spalle, la Chiesa cattolica non seguisse questa maggioranza. E invece l’ha fatto, e lo conferma ogni giorno di più. Per questo ho detto che l’antimodernismo di oggi, certamente in continuità con quello di ieri, ha però un fondamento diverso e peggiore. [...]

venerdì 18 marzo 2011

Tirannide

«Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; e a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società che lo ammette, è tirannide; ogni popolo che lo sopporta, è schiavo» (V. Alfieri, Della tirannide, cap. II).

sabato 3 ottobre 2009

italiani non all'italiana

Dice la signorina D'Addario, a proposito del mercatino erotico-politico del quale e' azionista (molto di minoranza), che "In Italia lo fanno tutti". Da un pulpito molto piu' autorevole, e dunque molto piu' sgradevole, Daniel Cohn-Bendit aggiunge che "tutti i maschi italiani vorrebbero fare come Berlusconi".
Beh, francamente, girano le scatole. E girano parecchio. C'e' una marea di italiani che non ha mai avuto non dico la necessita', ma neppure la curiosita' di frequentare la D'Addario e le sue socie e piuttosto che "fare come Berlusconi" farebbe l'orango in uno zoo. Bisognerebbe, per amore di dignita' e di verita', organizzare una controffensiva degli italiani non all'italiana, delle italiane che non fanno come la D'Addario e degli italiani che non fanno come Berlusconi. Ci vorrebbe una T-shirt capace di contenere le scritte necessarie per chiarire almeno alcuni dei distinguo che urge manifestare, da "non pago le signorine" a "non mi paga Berlusconi", da "sono del Nord ma non c'entro niente con la Lega" a "sono libero professionista ma pago le tasse" a "sono meridionale ma odio l'assistenzialismo". Solo che non basterebbe una maglietta XXXL.
Michele Serra

sabato 24 novembre 2007

Stato liberale

“Lo Stato basato sulla libertà deve reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri”. Autore: Gustavo Zagrebelsky
 
«Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà»: così il celebre dictum del costituzionalista E.W. Böckenförde, assurto a manifesto ideologico di quanti sostengono l’incapacità delle democrazie liberali di sopravvivere a se stesse e la necessità della religione come loro presupposto. Attira la nostra attenzione l’uso del verbo "potere": "presupposti che non può garantire". Sono possibili due comprensioni: non può perché non ci riesce de facto, o perché non gli è lecito de iure. Nel primo senso, la proposizione è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è notevole, anche rispetto alle conseguenze.
 
L’accento cade innanzitutto sull’impossibilità de facto e da cui deriva un fosco vaticinio. Il focus sta negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si troverebbe la ragione del deficit delle forze che "tengono unito il mondo" e "creano vincolo" sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi retorici: «Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalle religione non è e non può più essere essenziale per lui? È possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini?».
 
L’accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle aspettative di "bella vita", getta una luce particolare sul significato catastrofistico di queste domande.
 
Uno Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria legittimità, ad accrescere illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi da sé in una spirale mortale di aspettative d’ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere.
 
Non sono affermazioni originali. In una forma o in un’altra, le troviamo nella letteratura anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria, dall’Ottocento a oggi. Ora, però, l’impotenza dello Stato basato sulla libertà, come impotenza de facto, è ricondotta anche all’impossibilità de iure. Questo Stato non può cercare di rinsaldare l’ethos di cui ha bisogno percorrendo la strada a ritroso verso la res publica christiana. Non può farlo perché così rinnegherebbe se stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza, l’uguaglianza, il pluralismo: tutti principi dati per acquisiti. Dunque, l’impotenza di cui parliamo comprende entrambi i significati del "non può", l’esistenziale e il normativo. Le premesse di cui abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini, e tra questi ovviamente anche i cittadini cristiani in nome della loro fede, a dover assumere l’habitus etico necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla libertà. Sono i cittadini a potere e dovere garantire gli impulsi e le forze di unificazione interiori di cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi) essere lo Stato poiché, nelle sue mani, la religione diventerebbe instrumentum regni.
 
La ricezione di queste posizioni, attraverso una lettura semplificante del dictum sopra ricordato, non è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci fosse un certo margine di ambiguità. La ricezione è avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà – in quanto Stato, non in quanto società – non può di fatto, con le sue sole forze, darsi i propri presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato, legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo. Questa diversa interpretazione del "non può" è rappresentata in modo efficace dalle parole, scritte dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984: dalla tesi che l’attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta e perciò vive di presupposti «che esso stesso non può garantire» deriverebbe che esso ha bisogno di forze dall’esterno che lo sostengano. Le uniche forze disponibili sarebbero quelle del cristianesimo e con queste lo Stato potrebbe e dovrebbe stringere alleanza, un’alleanza, per sovrappiù, che assume il colore di una certa sottomissione: chi accetta che un altro getti le basi che garantiscono la sue esistenza non deve accettare anche la dipendenza da questo altro? La Chiesa pone la sua candidatura, in quanto afferma la propria "rilevanza pubblica assoluta" e rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata dalle coscienza. Lo stesso Ratzinger, però, mette in luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a un’aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato l’accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi». Poiché tuttavia "nell’attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso" – così prosegue Ratzinger – "la pretesa di riconoscimento pubblico della fede [cattolica] non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla tolleranza) non si potrebbe dedurre la piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico". Onde, conseguentemente, la richiesta di uno status differenziato, a favore della religione cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che inizia riguardando la questione dei simboli, ma si estende facilmente al sostegno delle scuole cattoliche, all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, al finanziamento agevolato delle sue attività, per finire a una sorta di diritto d’ultima parola nelle questioni legislative che hanno rilievo per l’identità cristiana dello Stato.
 
Böckenförde dice di prendere le distanze. A me, sinceramente, non pare. L’ordine pubblico di una situazione costituzionale pluralista – dice – non può appiattirsi sull’ethos di una sola religione: tutte le religioni e confessioni devono essere incluse nel diritto di avere e proclamare, in pubblico e in privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non deve comportare la pretesa di un livellamento dell’impronta religiosa che assicura l’identità dello Stato. "Livellamento" è una parola che suona male e, soprattutto, può significare una cosa che nessuno richiede: un’azione di forza che mai, in una società libera, sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo livellamento con uguaglianza, ci si accorge che questo è per l’appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché l’ordine pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato secolare fondato sulla libertà, tutte le fedi, tutte le religioni, tutte le credenze anche non religiose o antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza ed è questo che costituisce "l’impronta" di questo tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è contraddittoria e pericolosa l’affermazione di Böckenförde, che ha fatto su di me molta e negativa impressione, che «le minoranze religiose debbano vivere nella diaspora». Dire così significa negare l’esistenza di un comune e unico vincolo di cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e politici differenziati, a favore dei membri della religione di maggioranza, secondo esperienze del passato di infelice memoria. Come si possa sostenere questo genere di posizioni e, al tempo stesso, non contraddire l’esigenza di "assoluta neutralità" dello Stato, esigenza che costituisce certamente il contenuto minimo necessario di qualsiasi concezione della laicità, e come in tal modo non si neghino i fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è per me – lo confesso – un mistero.
 
Anche una seconda proposizione merita di essere indagata: «Fino a che punto i popoli uniti in stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà?»
 
Qui, l’attenzione cade su quel "precedere". Se la garanzia precede la libertà, non può che essere un legame che viene da fuori, non dall’autonomia dei singoli: un legame in qualche modo indotto, se non imposto, per via di autorità. La Chiesa, ammesso ch’essa possegga la riserva delle risorse etiche, potrebbe allora legittimamente chiedere che le si assicurino i mezzi per farle valere vincolativamente. Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere in questa offerta di collaborazione qualcosa di oltraggioso nei confronti della religione di Gesù di Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il teorico secentesco della ragion di Stato, dello Stato della Controriforma: «Tra tutte le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la ragion di Stato, fratel mio, obedir alla Chiesa cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio Cesare Capaccio, nel 1634.
 
Non risulta facilmente comprensibile come questa "precedenza" del legame unificante si accordi con l’altra affermazione di Böckenförde, questa sì pienamente conforme all’idea dello Stato secolare basato sulla libertà, che «la religione si dispiega […] nella società civile e nel suo ordinamento» e che da lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato, quale «organizzazione vincolante dell’umana convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti nessun bisogno di postulare un legame unificante che "preceda la libertà": esso si formerebbe infatti, precisamente, nella libertà.
 
È in questa "precedenza" che si annida la questione. Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale – l’odierno Stato secolare basato sulla libertà –, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile. Il problema non sono i credenti ma è la Chiesa, quando chiede e ottiene alleanza con lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente, il problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa questa alleanza interessata. Noi, in Italia, conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno e lo conosciamo nella forma più esplicita, quella del Cattolicesimo "religione di Stato", esistente fino a subito prima della Costituzione repubblicana, dallo Statuto Albertino fino al fascismo.
 
L’idea di un legame sostanziale unificante precedente la libertà corrisponde a un’idea di democrazia protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità dell’essere umano; sull’autodeterminazione delle persone sottoposte a trattamenti medici forzati, ecc., la Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale contengono indicazioni certo non trascurabili, per chi pensa che i fondamenti etici della convivenza siano da ricercare nella libertà; invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona "precedendo" l’esercizio della libertà che ha portato alla formulazione dei principi della Costituzione. Così come, più in generale, sono ignorati sia il principio di laicità sia i suoi contenuti, quali determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le divagazione su "nuove", "sane" ecc. laicità che provengono numerose da ambienti ecclesiastici e si riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte in cui si discute di politica ecclesiastica, sembrano non conoscere o, almeno, non tenere in conto i vincoli costituzionali, come il principio di equidistanza e il divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni religiose per rafforzare le obbligazioni civili e, al contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La proposta del cristianesimo come legame unificante precedente contraddice precisamente questa separazione.
 
Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque, per così dire, reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un problema che non può essere trascurato. Ma è un problema sociale, non politico o statale. Si dirà: il legame tra la religione e la politica e quindi lo Stato è un legame profondo, tutt’altro che accidentale. Lo si vede all’opera dalla preistoria fino quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può apparire che lo Stato secolarizzato dell’Europa occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto una deviazione, un Sonderweg, secondo l’espressione di Jürgen Habermas, destinato in breve a rientrare. E perfino il più radicale movimento politico fondato sull’immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito l’esigenza di divinizzare il suo regime. Invece, le società secolari odierne basate sulla libertà pensano di farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la rinuncia a usare un Dio per i propri fini politici non è forse, precisamente, la grande sfida ch’esse hanno accettato "per amore della libertà"?
 
(Da la Repubblica, 17 ottobre 2007)

sabato 17 novembre 2007

Verita' per Aldo

La storia ce l´ha raccontata su “Repubblica” Jenner Meletti. E´ morto in carcere, per cause ancora da accertare, un falegname umbro, Aldo Bianzino, arrestato il giorno prima perché coltivava cannabis per farne uso personale. Una persona mite, che viveva pacificamente in mezzo alla natura, certo non pericolosa per gli altri, che lascia un figlio minorenne e una compagna disperata. Proprio in questi giorni e in queste ore, con l´atroce delitto di Roma che esaspera la questione già rovente della sicurezza, della violenza, dell´immigrazione rom fuori controllo, viene spontaneo domandarsi per quale assurdo criterio giudiziario, o politico, o culturale, un uomo debba morire in carcere perché gli piaceva farsi le canne (tra parentesi: ieri la Cassazione ha “depenalizzato” la coltivazione di cannabis per “uso ornamentale”…). C´è una specie di folle sproporzione, di abnorme iniquità tra le notizie di rapinatori o di assassini rimessi in libertà con evidente imprevidenza, e vicende come questa, dalle quali la legge e la giustizia escono con una patente di totale stupidità. Una stupidità che avrà certamente le sue spiegazioni “tecniche”, i suoi alibi procedurali. Ma lascia di ghiaccio.
Uno Stato con i nervi saldi non se la prende con gli hippies: se non altro perché avrebbe cose più urgenti e più serie da fare.
(dall'Amaca di Michele Serra 2/11/2007)

domenica 15 aprile 2007

Esportare la democrazia?

Esportare la democrazia è possibile, ma l'ostacolo è il monoteismo di Giovanni Sartori

Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po' dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell'acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. (...)
A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia — e più esattamente la liberaldemocrazia — è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La «democrazia degli altri» non c'è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato «in grande». Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l'imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano.
Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi? Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile.
In questa ottica il concetto di liberaldemocrazia deve essere scomposto nei due elementi — liberale e democratico — che lo compongono. La componente liberale è «liberante»: libera il demos dalla oppressione, dalla servitù, dal dispotismo. La componente democratica è, invece, «potenziante» nel senso che potenzia il demos. Il che può essere ridetto così: che la liberaldemocrazia è in primo luogo demoprotezione, la protezione del popolo dalla tirannide; e, secondo, demopotere, l'attribuzione al popolo di quote, e anche quote crescenti, di effettivo esercizio del potere. Storicamente parlando, la creazione di un demos libero da, libero dalla oppressione politica, e quindi politicamente protetto, è specialmente dovuta a Locke e al costituzionalismo liberale. Ma un demos libero è anche un demos che entra nella «casa del potere», che si afferma domandando e ottenendo. E questa è la componente specificatamente democratica della liberaldemocrazia. Quale elemento — la demoprotezione o il demopotere — è il più importante? (...)
L'importanza in questione è procedurale: stabilire cosa viene prima e cosa viene dopo, quali siano le fondamenta della costruzione, e perciò stesso quale sia il supporto fondante dell'insieme. Se non c'è prima libertà da, non ci sarà dopo libertà di; se non c'è prima demoprotezione non ci può essere demopotere. Dovrebbe essere ovvio. Purtroppo non lo è. Quindi insisto, debbo insistere: la componente liberale della liberaldemocrazia ne è la condizione necessaria sine qua non, mentre la componente democratica ne è l'elemento variabile che ci può essere ma anche non essere. Il che equivale a dire che la demoprotezione costituisce una definizione minima della democrazia che ne è anche la definizione essenziale, mentre il demopotere ne definisce le caratteristiche contingenti che si possono manifestare in diverso modo e misura.

Torniamo alla esportabilità. Se, come ho appena detto, la demoprotezione è l'elemento necessario - minimo della liberaldemocrazia, ne consegue che ne dovrebbe anche essere l'elemento universale, o comunque più universabilizzabile, più facile da esportare. Questo trapianto può avvenire per contagio, e quindi in modo endogeno, oppure può risultare da una sconfitta militare ed essere una esportazione imposta con la forza. Gli esempi più citati di democrazia costituzionale imposta con successo dalle armi e da una occupazione militare sono, a seguito della Seconda guerra mondiale, Giappone, Germania e Italia. Ma questo è un assemblaggio statistico stupido, nel quale soltanto il Giappone è un caso significativo. La Germania nazista era stata preceduta dalla Repubblica di Weimar, e l'Italia fascista dall'Italia risorgimentale e giolittiana. In questi due casi il ritorno alla democrazia sarebbe avvenuto comunque o sarebbe stato pactado (come lo è stato in Spagna alla morte del generale Franco). Il Giappone sta invece a sé, è un caso reso diverso dalla sua netta eterogeneità culturale. E qui la lunga occupazione militare americana è stata senza dubbio determinante. Però è anche vero che la cultura giapponese si prestava al trapianto. Intanto, e in primo luogo, il Giappone era da tempo un Paese modernizzato; tale in virtù della cosiddetta, ed erroneamente detta, restaurazione Meiji della seconda metà dell'800. In secondo luogo, quando arrivò il generale MacArthur i giapponesi obbedivano all'imperatore, e l'imperatore ordinò ai suoi sudditi di obbedire al proconsole americano. Infine, e in terzo luogo, in Giappone non c'era un ostacolo religioso: lo scintoismo dei giapponesi è una religione, per così dire, molto tranquilla e molto laica. Così la democratizzazione del Giappone non pose problemi e non si imbatté in ostacoli. Il caso del Giappone dimostra più e meglio di ogni altro che la democrazia non è necessariamente vincolata al sistema di credenze e di valori della civiltà occidentale. I giapponesi restano culturalmente giapponesi ma apprezzano, allo stesso tempo, il metodo di governo occidentale.
Ma il caso più significativo è quello dell'India, che ha assorbito dalla lunga presenza e dominazione degli inglesi (non certo da inesistenti credenziali autoctone) le regole del costituzionalismo britannico e le ha poi mantenute e fatte proprie. Ma l'ostacolo religioso era, in India, più serio e complesso che in Giappone. Le grandi religioni indiane sono, nell'ordine, l'induismo, il buddismo e l'islamismo. L'induismo definisce l'identità del Paese, si tinge sempre più di nazionalismo e non è sempre una religione placida; però è anche una religione panteistica e sincretistica. Può accettare, come di fatto ha accettato, la democrazia. D'altra parte il buddismo è una religione meditativa che non pone problemi. Problemi che sono invece irriducibilmente creati dal monoteismo islamico. Tant'è vero che quando gli inglesi se ne andarono, si dovettero rassegnare a smembrare l'India creando un territorio islamico che poi si è a sua volta suddiviso in due Stati: il Pakistan e il Bangladesh. Qui importa sottolineare, primo, che senza questo scorporo l'India rischiava di essere dilaniata, nonostante mille anni di coesistenza, da una terribile guerra civile; secondo, che se l'India è una democrazia è perché l'ostacolo islamico è stato largamente rimosso dalla spartizione del Paese. Anche per l'India, come per il Giappone, si può quindi concludere che una eterogeneità culturale non impedisce l'adozione di una democrazia di tipo occidentale. La religione non è un ostacolo se e quando può accettare la laicità della politica. Il che spiega come mai l'India sia una democrazia «importata» che peraltro lascia gli indiani come sono, e cioè culturalmente indiani.
Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell'ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così.

venerdì 30 marzo 2007

Famiglia naturale

La «famiglia naturale»? Non esiste, perché la natura è violenza, caos e incesto ..

di Dacia Maraini
Il Papa sostiene, con ostinato candore, che si deve difendere la famiglia naturale. Ma cosa intende per natura, viene da chiedere.
Ogni normativa sociale, se guardiamo bene, va contro natura
. Nel mondo naturale il più grosso mangia il più piccolo, il più robusto schiavizza il più debole, le madri si accoppiano con i figli, i padri con le figlie, i fratelli con le sorelle. In natura non esiste morale, se per morale intendiamo prescrizioni che gli uomini si scelgono per vivere nello stesso Paese, nella stessa città, nella stessa casa, senza scannarsi a vicenda. Proprio per difendere la famiglia artificiale creata dall'uomo, sono state stabilite discipline che impediscono il vivere selvaggio del nucleo originale: l'incesto per esempio, presente in tutte le specie, anche nell'uomo, addirittura ammesso in certe circostanze storiche — vedi gli antichi egiziani — è stato proibito, come racconta bene Malinowski, per permettere alle prime tribù di espandersi, andare a cercare altre tribù, intrecciare rapporti e quindi aprire scambi di idee, di conoscenze, di esperienze.
Se per etica intendiamo i regolamenti che una società stabilisce per vivere meglio insieme, evitando le grandi ingiustizie, punendo i trasgressori e aiutando i più deboli, certo l'etica non è un prodotto della natura ma una difficile e nobile prassi che l'uomo avoca a sé, in nome di un Dio che sceglie di applicare la giustizia, concetto assolutamente contrario alla natura. La giustizia a volte sembra un'utopia, ma ciò che rende umani gli uomini è proprio il continuo ossessivo tentativo di sostituire la crudeltà brutale delle cose con una voglia di comunità, di uguaglianza, di fraternità. Ogni volta che la natura crea un disastro, l'uomo cerca di rimediare. Perché la natura vuole sì la riproduzione dell'uomo, ma spesso e volentieri solleva le sue forze devastatrici che distruggono con un solo colpo migliaia di corpi umani.Anche l'omosessualità esiste in natura, come dimostrano tanti popoli che l'hanno ammessa e praticata legalmente. Eppure spesso è stata proibita, soprattutto quando c'era pericolo di estinzione per un popolo, quando metà dei figli morivano di malattia e c'era un bisogno assoluto di braccia da lavoro. Con la crescita di un certo benessere e con la sovrappopolazione, cambiano le prospettive e l'intolleranza diminuisce.
Certo la natura, quando vuole riprodursi, accoppia due persone di sesso opposto. Ma poiché abbiamo guastato e corrotto l'aria che respiriamo e l'acqua che beviamo, gli uomini soffrono sempre più di sterilità. E per ovviare a un dato naturale — la sterilità — le società avanzate hanno inventato l'adozione, che non esiste in natura, hanno inventato la riproduzione assistita che aiuta coloro che vogliono avere figli, a farli.
Infine potremmo anche chiederci cosa c'è di naturale nella castità dei preti. Nessuno mette in discussione la legittimità della loro scelta, ma ciò non dà diritto a chi preferisce la verginità, di decidere come gli altri, uomini e donne, debbano vivere la propria sessualità.Cosa c'è di naturale nell'educazione? Nei libri? Nelle scuole? Nella scienza? E perfino nella monogamia? L'uomo per natura è poligamo, come lo sono la maggioranza degli animali. Anche le donne per natura sono probabilmente molto più poliandriche di quanto si pensi. Eppure la civiltà ha scelto la monogamia proprio per difendere quella famiglia del tutto artificiale che si oppone, per ragioni morali, e quindi non naturali, allo sperpero e al caos. Insomma un poco più di prudenza nell'uso della parola natura perché può rivoltarsi contro chi la usa. E' l'uomo ad aver costituito una struttura «artificiale» per difendersi da disastri e disordine.

domenica 25 marzo 2007

Scegliere la pace

David Grossman | da LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA, Numero 99 del 12.11.2006
 
Il ricordo di Yitzhak Rabin e' un momento di pausa in cui riflettiamo anche su noi stessi. Quest'anno la riflessione non e' per noi facile. C'e' stata una guerra. Israele ha messo in mostra una possente muscolatura militare dietro la quale ha pero' rivelato debolezza e fragilita'. Abbiamo capito che la potenza militare in mano nostra non puo', in fin dei conti, garantire da sola la nostra esistenza. Abbiamo soprattutto scoperto che Israele sta attraversando una crisi profonda, molto piu' profonda di quanto immaginassimo, una crisi che investe quasi tutti gli aspetti della nostra esistenza. Parlo qui, stasera, in veste di chi prova per questa terra un amore difficile e complicato, e tuttavia indiscutibile.
Come chi ha visto trasformarsi in tragedia, in patto di sangue, il patto che aveva sempre mantenuto con essa. Io sono laico, eppure ai miei occhi la creazione e l'esistenza stessa di Israele sono una sorta di miracolo per il nostro popolo, un miracolo politico, nazionale e umano; e io non lo dimentico neppure per un istante. Anche quando molti episodi della nostra realta' suscitano in me indignazione e sconforto, anche quando il miracolo si frantuma in briciole di quotidianita', di miseria e di corruzione, anche quando la realta' appare una brutta parodia del miracolo, esso per me rimane tale.
"Guarda o terra, quanto abbiamo sprecato", scriveva il poeta Shaul Tchernikovsky nel 1938 lamentandosi del fatto che nel suolo della terra di Israele venivano seppelliti ragazzi nel fiore degli anni. La morte di giovani e' uno spreco terribile, lancinante. Ma non meno terribile e' che Israele sprechi in modo criminale non solo le vite dei suoi figli ma anche il miracolo di cui e' stato protagonista, l'opportunita' grande e rara offertagli dalla storia, quella di creare uno stato illuminato, civile, democratico, governato da valori ebraici e universali. Uno stato che sia dimora nazionale, rifugio e anche luogo che infonda un nuovo senso all'esistenza ebraica. Uno stato in cui una parte importante e sostanziale della sua identita' ebraica, della sua etica ebraica, sia mantenere rapporti di completa uguaglianza e di rispetto con i suoi cittadini non ebrei.
E guardate cosa e' successo. Guardate cosa e' successo a una nazione giovane, audace, piena di entusiasmo. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele e' passato da una fase di infanzia e di giovinezza, a uno stato di costante lamentela, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un'occasione. Com'e' successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita migliore? E come possiamo oggi rimanere a guardare, come ipnotizzati, il dilagare della follia, della rozzezza, della violenza e del razzismo in casa nostra? Com'e' possibile che un popolo dotato di energie creative e inventive come il nostro, che ha saputo risollevarsi piu' volte dalle ceneri, si ritrovi oggi, proprio quando possiede una forza militare tanto grande, in una situazione di inerzia e di impotenza? Situazione in cui e' nuovamente vittima, ma questa volta di se stesso, dei suoi timori, della sua disperazione e della sua miopia.
 

 


 

 
Uno degli aspetti piu' gravi messi in luce dalla guerra e' che attualmente non esiste un leader in Israele. Che la nostra dirigenza politica e militare e' vuota di contenuto. E non mi riferisco agli evidenti errori commessi nella conduzione della guerra o all'abbandono delle retrovie a se stesse. Non mi riferisco nemmeno agli episodi di corruzione, grandi e piccoli, agli scandali, alle commissioni d'inchiesta.
Mi riferisco al fatto che chi ci governa oggi non e' in grado di far si' che gli israeliani si rapportino alla loro identita' e tanto meno agli aspetti piu' sani, vitali e fecondi di essa; non agli elementi della loro memoria storica che possano infondere in loro forza e speranza, che li incoraggino ad assumersi responsabilita' gli uni nei confronti degli altri e diano un qualsiasi significato alla sconfortante e spossante lotta per l'esistenza. La maggior parte dei leader odierni non e' in grado di risvegliare negli israeliani un senso di continuita' storica e culturale. O di appartenenza a uno schema di valori chiaro, coerente e consolidato negli anni. I contenuti principali di cui l'odierna dirigenza israeliana riempie il guscio del suo governo sono la paura da un lato e la creazione di ansie dall'altro, il miraggio della forza, l'ammiccamento al raggiro, il misero commercio di tutto cio' che ci e' piu' caro.
In questo senso non sono dei veri leader. Certo non i leader di cui un popolo tanto disorientato e in una situazione tanto complessa come quella israeliana ha bisogno. Talvolta pare che l'eco del pensiero dei nostri leader, la loro memoria storica, i loro ideali, tutto quello che e' veramente importante per loro, non oltrepassi il minuscolo spazio esistente tra due titoli di giornale. O le pareti dell'ufficio del procuratore generale dello Stato. Osservate chi ci governa. Non tutti, naturalmente, ma troppi fra loro. Osservate il loro modo di agire, spaventato, sospettoso, affannato; il loro comportamento viscido e intrigante. Quando e' stata l'ultima volta che il Primo Ministro ha espresso un'idea o compiuto un passo in grado di spalancare un nuovo orizzonte agli israeliani? Di prospettare loro un futuro migliore? Quando mai ha intrapreso un'iniziativa sociale, culturale, morale, senza limitarsi a reagire scompostamente a iniziative altrui?
 

 


 

 
Signor Primo Ministro. Non parlo spinto da un sentimento di rabbia o di vendetta. Ho aspettato abbastanza per non reagire mosso dall'impulso del momento. Questa sera lei non potra' ignorare le mie parole sostenendo che "Non si giudica una persona nel momento della tragedia".
E' ovvio che sto vivendo una tragedia. Ma piu' di quanto io provi rabbia, provo dolore. Provo dolore per questa terra, per quello che lei e i suoi colleghi state facendo. Mi creda, il suo successo e' importante per me perche' il futuro di noi tutti dipende dalla sua capacita' di agire. Yitzhak Rabin aveva imboccato il cammino della pace non perche' provasse grande simpatia per i palestinesi o per i loro leader. Anche allora, come ricordiamo, era opinione generale che non avessimo un partner e che non ci fosse nulla da discutere con i palestinesi. Rabin si risolse ad agire perche' capi', con molta saggezza, che la societa' israeliana non avrebbe potuto resistere a lungo in uno stato di conflitto irrisolto. Capi', prima di molti altri, che la vita in un clima costante di violenza, di occupazione, di terrore, di ansia e di mancanza di speranza, esigeva un prezzo che Israele non avrebbe potuto sostenere. Tutto questo e' vero anche oggi, ed e' ancora piu' impellente.
 

 


 

 
Da piu' di un secolo ormai viviamo in uno stato di conflitto. Noi, cittadini di questo conflitto, siamo nati nella guerra, siamo stati educati nella guerra e, in un certo senso, siamo stati programmati per la guerra. Forse per questo pensiamo talvolta che questa follia in cui viviamo ormai da cento anni sia l'unica, vera realta'. L'unica vita destinata a noi e che non abbiamo la possibilita', o forse neppure il diritto, di aspirare a una vita diversa: vivremo e moriremo con la spada e combatteremo per l'eternita'.
Forse per questo siamo cosi' indifferenti al totale ristagno del processo di pace. Forse per questo la maggior parte di noi ha accettato con indifferenza il rozzo calcio sferrato alla democrazia dalla nomina di Avigdor Lieberman a ministro, un potenziale piromane posto a capo dei servizi statali responsabili di spegnere gli incendi. Questi sono anche, in parte, i motivi per cui, in tempi brevissimi, Israele e' precipitato nell'insensibilita', nella crudelta', nell'indifferenza verso i deboli, verso i poveri, verso chi soffre, verso chi ha fame, verso i vecchi, i malati, gli invalidi, il commercio di donne, lo sfruttamento e le condizioni di schiavitu' in cui vivono i lavoratori stranieri e verso il razzismo radicato, istituzionale, nei confronti della minoranza araba. Quando tutto questo accade con totale naturalezza, senza suscitare scandali ne' proteste, io comincio a pensare che anche se la pace giungera' domani, anche se un giorno torneremo a una situazione di normalita', abbiamo forse gia' perso l'opportunita' di guarire.
 

 


 

 
La tragedia che ha colpito me e la mia famiglia non mi concede privilegi nel dibattito politico ma ho l'impressione che il dover affrontare la morte e la perdita di una persona cara comporti anche una certa lucidita' e chiarezza di sguardo, per lo meno per quanto riguarda la distinzione tra cio' che e' importante e cio' che e' secondario, tra cio' che e' possibile ottenere e cio' che e' impossibile. Tra la realta' e il miraggio.
Ogni persona di buon senso in Israele - e aggiungo, anche in Palestina - sa esattamente quale sara', a grandi linee, la soluzione del conflitto tra i due popoli. Ogni persona di buon senso e' anche consapevole in cuor suo della differenza tra sogno e aspirazione e cio' che e' possibile ottenere alla fine di un negoziato. Chi non lo sa, arabo o ebreo che sia, non e' gia' piu' un possibile interlocutore, e' prigioniero di un fanatismo ermetico e non e' quindi un possibile partner. Consideriamo un attimo il nostro partner. I palestinesi hanno scelto come loro guida Hamas che rifiuta di negoziare con noi e di riconoscerci. Cosa si puo' fare in una situazione simile? Cos'altro ci rimane da fare? Continuare a soffocarli? A uccidere centinaia di palestinesi a Gaza, per la maggior parte semplici cittadini come noi?
 

 


 

 
Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert. Si rivolga a loro al di sopra delle teste di Hamas. Si appelli ai moderati, a chi si oppone, come lei e me, a Hamas e alla sua strada. Si appelli al popolo palestinese. Non si ritragga dinanzi alla sua ferita profonda, riconosca la sua continua sofferenza.
Lei non perdera' nulla, e neppure Israele, in un futuro negoziato. Solo i cuori si apriranno un poco gli uni agli altri, e questa apertura racchiudera' in se' una forza enorme. In una simile situazione di immobilita' e di ostilita' la semplice compassione umana possiede la forza di una cataclisma naturale.
Per una volta tanto guardi i palestinesi non attraverso il mirino di un fucile o da dietro le sbarre chiuse di un check point. Vedra' un popolo martoriato non meno di noi. Un popolo conquistato, oppresso e senza speranza. E' ovvio che anche i palestinesi sono colpevoli del vicolo cieco in cui ci troviamo. E' ovvio che anche loro sono ampiamente responsabili del fallimento del processo di pace. Ma li guardi un momento con occhi diversi. Non solo gli estremisti fra loro. Non solo chi ha stretto un patto di interesse con i nostri estremisti. Guardi la maggior parte di questo povero popolo il cui destino e' legato al nostro, che lo si voglia o no.
 

 


 

 
Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert, non continui a cercare ragioni per non dialogare con loro. Ha rinunciato all'idea di un nuovo ritiro unilaterale, e ha fatto bene. Ma non lasci un vuoto che verrebbe immediatamente colmato dalla violenza e dalla distruzione. Intavoli un dialogo. Avanzi una proposta che i moderati (e fra loro sono piu' di quanto i media ci mostrino) non possano rifiutare. Lo faccia, in modo che i palestinesi possano decidere se accettarla o se rimanere ostaggi dell'Islam fanatico. Presenti loro il piano piu' coraggioso e serio che Israele e' in grado di proporre. La proposta che agli occhi di ogni israeliano e palestinese sensato contenga il massimo delle concessioni, nostre e loro. Non stia a discutere di bazzecole. Non c'e' tempo.
Se tentennera', fra poco avremo nostalgia del dilettantismo del terrorismo palestinese. Ci batteremo il capo urlando: come abbiamo potuto non fare ricorso a tutta la nostra elasticita' di pensiero, a tutta la creativita' israeliana, per strappare i nostri nemici dalla trappola in cui si sono lasciati cadere? Proprio come ci sono guerre combattute per mancanza di scelta, c'e' anche una pace che si rincorre per "mancanza di scelta". Non abbiamo scelta, ne' noi ne' loro. E dobbiamo aspirare a questa pace forzosa con la stessa determinazione e creativita' con cui partiamo per una guerra forzosa. Perche' non c'e' scelta e chi ritiene che ci sia, che il tempo giochi a nostro favore, non capisce i processi pericolosi in cui gia' ci troviamo.
 

 


 

 
E piu' in generale, signor Primo Ministro, forse dovremmo rammentarle che se un qualsiasi leader arabo invia segnali di pace - anche impercettibili e titubanti - lei ha il dovere morale di rispondere. Ha il dovere di verificare immediatamente l'onesta' e la serieta' di quel leader. Deve farlo per coloro ai quali chiede di sacrificare la vita nel caso scoppi una nuova guerra. E quindi, se il presidente Assad dice che la Siria vuole la pace - per quanto lei non gli creda e tutti noi nutriamo sospetti nei suoi confronti - deve offrirgli di incontrarlo subito. Senza aspettare nemmeno un giorno. In fondo, non ha aspettato nemmeno un'ora a dare inizio all'ultima guerra. Si e' lanciato nell'offensiva con tutte le sue forze. Con tutte le armi a disposizione e tutta la loro potenza distruttiva.
Allora perche' quando c'e' un segnale di pace lei si affretta a respingerlo, a lasciarlo svanire? Cos'ha da perdere? Nutre forse dei sospetti nei confronti del presidente siriano? Allora gli presenti delle condizioni tali da rivelare la sua macchinazione. Gli proponga un processo di pace che duri qualche anno e alla fine del quale, se tutte le condizioni e le restrizioni verranno rispettate, gli verranno restituite le alture del Golan. Lo costringa al dialogo. Agisca in modo che nella coscienza del popolo siriano si delinei anche questa possibilita'. Dia una mano ai moderati, che sicuramente esistono anche lassu'. Cerchi di plasmare la realta'...
E' stato eletto per questo. Esattamente per questo.
 

 


 

 
E in conclusione. E' ovvio che non tutto dipende da noi e ci sono forze grandi e potenti che agiscono in questa regione e nel mondo e alcune di loro - come l'Iran e come l'Islam radicale - non hanno buone intenzioni nei nostri confronti. Eppure molto dipende da come agiremo noi, da cio' che saremo. Attualmente non esiste grande disparita' tra la sinistra e la destra. La stragrande maggioranza degli israeliani capisce ormai - per quanto alcuni senza troppo entusiasmo - quale sara' a grandi linee la soluzione del conflitto: questa terra verra' divisa, sorgera' uno stato palestinese. Perche', quindi, continuare a sfibrarci in una querelle intestina che dura da quasi quarant'anni? Perche' la dirigenza politica continua a rispecchiare le posizioni dei radicali e non quelle della maggior parte degli elettori? Dopo tutto la nostra situazione sarebbe migliore se raggiungessimo un'intesa nazionale prima che le circostanze - pressioni esterne, una nuova Intifada o una nuova guerra - ci costringano a farlo. Se lo faremo risparmieremo anni di sangue versato e di spreco di vite umane. Anni di terribili errori. Mi appello a tutti, ai reduci dalla guerra che sanno che dovranno pagare il prezzo del prossimo scontro armato, ai sostenitori della destra, della sinistra, ai religiosi e ai laici: fermatevi un momento, guardate l'orlo del baratro, pensate a quanto siamo vicini a perdere quello che abbiamo creato. Domandatevi se non sia arrivata l'ora di scuoterci dalla paralisi, di fare una distinzione tra cio' che e' possibile ottenere e cio' che non lo e', di esigere da noi stessi, finalmente, la vita che meritiamo di vivere.

giovedì 22 marzo 2007

Diritti

Due parole sui diritti innati e sul diritto naturale.
 
Se ne è scritta nei secoli un'immensa biblioteca e non sarò certo io a risollevare questa questione in un articolo. Soltanto qualche breve riflessione. Il solo, l'unico diritto innato deriva dall'ente, che esiste e vuole esistere. Nel caso della nostra specie quell'ente si chiama persona, quali che siano i tanti significati che si danno a questa parola. In latino persona significa maschera. Per noi significa individuo, infinitesima parte di una specie, anch'essa individuata tra la moltitudine delle specie. Il diritto dell'individuo persona ad esistere è innato, proviene dalla natura che lo fornisce anche alle altre specie e agli individui che le compongono, ciascuno dei quali, dall'albero al falcone alla persona dotata di mente, vuole, disperatamente vuole esistere e adopera tutti gli strumenti che la natura gli ha fornito per esistere.
Per soddisfare questo diritto "biologico" l'individuo entra necessariamente in conflitto con tutto ciò che lo circonda, con l'obiettivo, per lui primario, di guadagnare e preservare lo spazio di cui ha bisogno. Le radici di due alberi nati troppo vicini tra loro si disputeranno il terreno da cui traggono alimento e la luce che gli serve per la fotosintesi senza la quale appassirebbero. E se lo spazio è troppo ristretto uno dei due finirà col morire diventando uno stecco senza più fronde nè linfe. A maggior ragione ciò si vede nel regno animale ed in quello degli uomini. Ho sentito l'altra sera il nostro telepredicatore nazionale esaltare l'innocenza dei bambini, il loro candore, la loro innata bontà.
L'età dell'oro, insomma. Ma è falso. E' un falso luogo comune. Il bambino è certamente innocente, ha mangiato soltanto i frutti dell'albero della vita e non ancora quelli della conoscenza. Nè sa che cosa sia il peccato. Ma la bontà dei bambini non esiste. La predominante necessità d'ogni bambino è quella di conquistare il suo territorio, attirare su di sè l'attenzione di tutti, vincere tutte le gare, appropriarsi di ciò che desidera. Togliendolo agli altri. Vincendo sugli altri. Sottomettendo gli altri.
Questo è l'istinto primordiale, innato, esclusivo. E spetta a chi li educa insegnare a contenere l'istinto primordiale, a rispettare gli altri, la roba degli altri e addirittura a condividere la propria con gli altri.
 
Questa disponibilità non è affatto innata ma indotta. Dalla cultura, dall'insegnamento degli adulti. E, infine, poichè quell'istinto primordiale ci accompagna fino alla morte, educare e al bisogno limitarlo, spetta alle leggi sulle quali si fonda la Città terrena. I cui fondatori e reggitori si imposero sugli altri con la violenza della scaltrezza o con quella della forza per acquistare il potere ed esercitarlo. Nessuno è stato ed è esente da questo peccato originario, fondato sull'unico diritto innato: la sopravvivenza dell'ente e il dispiegarsi della sua potenza. Il Papa, quando rispolvera il diritto naturale e lo riconduce al Creatore e chiede che le leggi e la gestione della comunità civile siano improntate alle sue indicazioni, non fa che esprimere la volontà di espansione e potenza dell'ente da lui rappresentato. Esprime attraverso comandamenti religiosi la volontà di potenza della sua religione. Non so perchè questo obiettivo sia chiamato oggi "buona laicità". Ma se un confronto ci deve essere tra la Chiesa e il mondo moderno, il dicorso e l'analisi debbono andare molto al di là delle trovate lessicali. La "buona laicità" odora da lontano di teocrazia. Non vorrei che il confronto con l'Islam ci portasse ad imitarlo nel peggio anzichè suggerire agli islamici di scoprire il meglio delle loro e delle nostre Scritture.
 
(Scalfari da Repubblica del 23.10.2005)