martedì 25 dicembre 2007

Auguri scomodi

Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo.

Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario.
Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli!
 
Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali
e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.
 
Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
 
Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
 
Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
 
Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
 
Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.
 
I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.
Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano.
Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.
 
I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e scrutano l’aurora,
vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio.
 
E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.
Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.
                                                                                   Tonino Bello

lunedì 24 dicembre 2007

Oltrepassare

Nel nuovo libro, «Oltrepassare», il filosofo lancia l'ultima provocazione: la morte non esiste
Il Paradiso non c'è, ma siamo destinati alla felicità
Emanuele Severino disegna uno scenario ultraterreno alternativo a ogni fede
di Armando Torno
 
Che cosa angoscia l'uomo da sempre? La risposta è semplice: la morte. Lo sapevano già egizi, babilonesi ed ebrei, lo compresero magnificamente i greci, a Roma Lucrezio spiegò le conseguenze mondane e religiose di questa paura. Ma forse tali caratteristiche le ebbe (le ha) quella morte che non lascia una possibilità di salvezza. Il nulla che ci avvolge, per dirla in parole semplici. Giacché siamo fatti della stessa sostanza di cui sono composti i sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno: così, almeno, scrisse ne La Tempesta il sommo Shakespeare.
Emanuele Severino ha mostrato in Gloria (Adelphi, 2001) come la salvezza da questo concreto nulla non sia una semplice possibilità ma una vera e propria necessità, perché «l'uomo è atteso dalla terra che salva». In altri termini, anche se non lo sa o non se ne accorge o non ci crede, ognuno di noi è in cammino verso un immenso che non immagina. E ora il discorso, che si dipana attraverso scenari a dir poco sconvolgenti, è affrontato da Severino in un'altra opera, che esce in questi giorni e alla quale ha lavorato negli ultimi anni: Oltrepassare (Adelphi).
In essa un messaggio forte e sintetico colpisce il lettore: noi siamo destinati alla felicità, per necessità e non come premio. E la vita eterna non è quella di cui parlano le religioni.
Per talune tematiche il libro è, rispetto a Gloria, «rischiaramento e sviluppo», il medesimo autore lo considera come la seconda parte e la naturale conclusione (p. 30); tuttavia in questa nuova opera si mostra come «la terra che salva» sia «infinitamente più ampia, cioè più salvatrice». Non soltanto: in Oltrepassare il senso autentico del divenire rivela una «complessità che in Gloria non viene ancora indicata». Insomma, pagine ricchissime di spunti, da meditare, che portano alle estreme conclusioni quel discorso che il maestro italiano avviò nel 1958 con La struttura originaria.
Severino ha filosofato partendo dalle istanze iniziali del pensiero occidentale e ha sempre tenuto presente il principio di non contraddizione insegnato da Aristotele. Anzi, egli ha via via indicato i punti deboli di molti edifici abitati dal nostro sapere. In un colloquio ci ha fatto notare che all'alba della sapienza greca si è cercato un linguaggio che non potesse essere smentito né dagli uomini né dagli dei, meno che mai da variazioni epocali o catastrofi o da qualsiasi innovazione dell'anima. Eraclito di Efeso, sei secoli prima della nostra era, raccomandava di non ascoltare lui ma il Logos, vale a dire qualcosa da cercarsi oltre le opinioni. Severino ha sempre percorso tale via sino a giungere a Oltrepassare: con questa opera apre scenari che parlano di «attesa e gloria della gioia», invitando il lettore in quella costellazione dove «l'essenza dell'uomo, che ora è contesa dal destino e dalla terra morta, è destinata alla più ampia arcata d'immenso». La domanda che ha accompagnato la sua instancabile ricerca — che cosa si apre al di là della contraddizione? — ora trova requie in una risposta che si confonde con il nostro sorriso.
Detto in soldoni, a noi sembra che il messaggio di Oltrepassare sia la conferma per il pensiero di Severino che «l'estrema delle follie», vale a dire la persuasione che le cose e l'uomo «sporgano provvisoriamente dal nulla», rappresenti il più terribile degli equivoci. Ci confida: «La gran ventura è rendersi conto che c'è un sapere non smentibile, più radicale di quello scientifico, che afferma l'eternità di ogni cosa, situazione, stato del mondo». Tale sapere è il «destino». Qualcuno ha trovato una corrispondenza tra codesti temi e la teoria della relatività, per la quale tutte le cose— le passate e le future, non meno delle presenti— sono fotogrammi che esistono già, eterni, prima dello loro proiezione. Ma questa metafora deve essere abbandonata, giacché ci può aiutare ma non ci consente di entrare nell'ultima fase rappresentata in Oltrepassare.
Si può essere d'accordo o no con Severino, comunque gli va riconosciuta una coerenza estrema nel linguaggio e nel metodo. Gli abbiamo chiesto di sintetizzare il suo percorso, in modo da offrirlo senza equivoci al lettore. Ha risposto: «Ne La Gloria si mostra che l'ombra della Notte, cioè della follia, da cui "il destino" è nascosto, è qualcosa che tramonterà ed è necessariamente "oltrepassata": con essa finiranno anche le opere, le civiltà e le epoche ad essa appartenenti. Si fa innanzi il Giorno che salva dalla Notte. In Oltrepassare si mostra che il Giorno è lo stesso apparire in noi della totalità infinita e concreta dell'essere».
Parlare con Severino è una continua sorpresa. Mentre risponde, alcune sue frasi si ficcano come spilli nella memoria. Inoltre Oltrepassare conduce in scenari a dir poco affascinanti, per i quali vale la seguente regola: «Il linguaggio che testimonia il destino della verità indica qualcosa che sta al di là di ogni sapienza dei mortali». Attraverso queste pagine si comprende come «il cambiamento — il divenire — non può essere la creazione e l'annientamento delle cose, che sono eterne»; anzi ogni mutare si dovrebbe intendere come «il sopraggiungere mai compiuto degli eterni nell'eterna luce dell'uomo». Di più, ribadisce nel nostro colloquio, sillabando: «Nel sopraggiungere gli eterni sono oltrepassati e insieme totalmente conservati. Tutta questa nostra vita è destinata a essere oltrepassata e conservata in ognuno di noi».
Chi scrive, più semplicemente, rivede in Oltrepassare un foglietto volante inserito nella dispensa dell'Università Cattolica di Ritornare a Parmenide.
In esso le ultime righe — che poi non saranno riprese ne L'essenza del nichilismo — recitavano: «Tutte le vite che vivo, le vivo eternamente; tutto ciò che ho deciso o decido, l'ho già eternamente deciso...». Ora ci accorgiamo che quelle parole erano l'inizio di un'odissea alla ricerca di quanto si svela in questo ultimo libro, nel quale, tra l'altro, Severino affronta il tema dello «smembramento del Dio», atto essenziale perché «se ne mangino le carni e se ne beva il sangue». Ma qui il discorso si fa ampio: occorre evocare il mito, comprendere la violenza e l'isolamento delle cose, il loro divenire altro.
Accanto a questi e a ulteriori scenari, troverete alcune commoventi riflessioni sulla nostra fine. Con una conclusione che in molti giudicheranno paradossale: la morte, così come la intendiamo, non esiste. Ma non si tratta di un'affermazione assurda, se vista nella luce che si apre dopo il tramonto della follia attuale dell'uomo.
 
(dal Corriere della Sera 18.10.07)
manichedisegnano

lunedì 17 dicembre 2007

Password change behavior

The password change behavior for SYSTEM users is adjusted to that of the SERVICE user. The new (from 4.6C) matrix then appears as follows:
                       | SAPGUI capable  |  Not interactive
-----------------------|-----------------|-----------------------
Password change: Yes   | Type: Dialog    |  Type:  Communication
                       |                 |
-----------------------|-----------------|-----------------------
Password change: No    | Type: Service   |  Type:  System
 
 
You use the parameter login/password_expiration_time because you want users to change their password every xx days. However, you want it so that some users don't have to change their password. At database level (not in R/3), you can easily solve this problem: in the table USR02, just set a date far in the future for the field BCDA1 (password last change).
For example, if you want to set it so user SMITH does not have to change his password until 2010, you can use the following SQL script:
update USR02 set BCDA1 = '20101231' where BNAME='SMITH'
Just replace the values for BCDA1 and BNAME with your own values! This script is for MS SQL Server + R/3 46B and 46C, but the syntax should not be very different for other database systems and R/3 versions.

sabato 24 novembre 2007

Stato liberale

“Lo Stato basato sulla libertà deve reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri”. Autore: Gustavo Zagrebelsky
 
«Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà»: così il celebre dictum del costituzionalista E.W. Böckenförde, assurto a manifesto ideologico di quanti sostengono l’incapacità delle democrazie liberali di sopravvivere a se stesse e la necessità della religione come loro presupposto. Attira la nostra attenzione l’uso del verbo "potere": "presupposti che non può garantire". Sono possibili due comprensioni: non può perché non ci riesce de facto, o perché non gli è lecito de iure. Nel primo senso, la proposizione è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è notevole, anche rispetto alle conseguenze.
 
L’accento cade innanzitutto sull’impossibilità de facto e da cui deriva un fosco vaticinio. Il focus sta negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si troverebbe la ragione del deficit delle forze che "tengono unito il mondo" e "creano vincolo" sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi retorici: «Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalle religione non è e non può più essere essenziale per lui? È possibile fondare e conservare l’eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini?».
 
L’accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle aspettative di "bella vita", getta una luce particolare sul significato catastrofistico di queste domande.
 
Uno Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria legittimità, ad accrescere illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi da sé in una spirale mortale di aspettative d’ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere.
 
Non sono affermazioni originali. In una forma o in un’altra, le troviamo nella letteratura anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria, dall’Ottocento a oggi. Ora, però, l’impotenza dello Stato basato sulla libertà, come impotenza de facto, è ricondotta anche all’impossibilità de iure. Questo Stato non può cercare di rinsaldare l’ethos di cui ha bisogno percorrendo la strada a ritroso verso la res publica christiana. Non può farlo perché così rinnegherebbe se stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza, l’uguaglianza, il pluralismo: tutti principi dati per acquisiti. Dunque, l’impotenza di cui parliamo comprende entrambi i significati del "non può", l’esistenziale e il normativo. Le premesse di cui abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini, e tra questi ovviamente anche i cittadini cristiani in nome della loro fede, a dover assumere l’habitus etico necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla libertà. Sono i cittadini a potere e dovere garantire gli impulsi e le forze di unificazione interiori di cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi) essere lo Stato poiché, nelle sue mani, la religione diventerebbe instrumentum regni.
 
La ricezione di queste posizioni, attraverso una lettura semplificante del dictum sopra ricordato, non è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci fosse un certo margine di ambiguità. La ricezione è avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà – in quanto Stato, non in quanto società – non può di fatto, con le sue sole forze, darsi i propri presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato, legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo. Questa diversa interpretazione del "non può" è rappresentata in modo efficace dalle parole, scritte dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984: dalla tesi che l’attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta e perciò vive di presupposti «che esso stesso non può garantire» deriverebbe che esso ha bisogno di forze dall’esterno che lo sostengano. Le uniche forze disponibili sarebbero quelle del cristianesimo e con queste lo Stato potrebbe e dovrebbe stringere alleanza, un’alleanza, per sovrappiù, che assume il colore di una certa sottomissione: chi accetta che un altro getti le basi che garantiscono la sue esistenza non deve accettare anche la dipendenza da questo altro? La Chiesa pone la sua candidatura, in quanto afferma la propria "rilevanza pubblica assoluta" e rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata dalle coscienza. Lo stesso Ratzinger, però, mette in luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a un’aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato l’accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi». Poiché tuttavia "nell’attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso" – così prosegue Ratzinger – "la pretesa di riconoscimento pubblico della fede [cattolica] non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla tolleranza) non si potrebbe dedurre la piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico". Onde, conseguentemente, la richiesta di uno status differenziato, a favore della religione cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che inizia riguardando la questione dei simboli, ma si estende facilmente al sostegno delle scuole cattoliche, all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, al finanziamento agevolato delle sue attività, per finire a una sorta di diritto d’ultima parola nelle questioni legislative che hanno rilievo per l’identità cristiana dello Stato.
 
Böckenförde dice di prendere le distanze. A me, sinceramente, non pare. L’ordine pubblico di una situazione costituzionale pluralista – dice – non può appiattirsi sull’ethos di una sola religione: tutte le religioni e confessioni devono essere incluse nel diritto di avere e proclamare, in pubblico e in privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non deve comportare la pretesa di un livellamento dell’impronta religiosa che assicura l’identità dello Stato. "Livellamento" è una parola che suona male e, soprattutto, può significare una cosa che nessuno richiede: un’azione di forza che mai, in una società libera, sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo livellamento con uguaglianza, ci si accorge che questo è per l’appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché l’ordine pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato secolare fondato sulla libertà, tutte le fedi, tutte le religioni, tutte le credenze anche non religiose o antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza ed è questo che costituisce "l’impronta" di questo tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è contraddittoria e pericolosa l’affermazione di Böckenförde, che ha fatto su di me molta e negativa impressione, che «le minoranze religiose debbano vivere nella diaspora». Dire così significa negare l’esistenza di un comune e unico vincolo di cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e politici differenziati, a favore dei membri della religione di maggioranza, secondo esperienze del passato di infelice memoria. Come si possa sostenere questo genere di posizioni e, al tempo stesso, non contraddire l’esigenza di "assoluta neutralità" dello Stato, esigenza che costituisce certamente il contenuto minimo necessario di qualsiasi concezione della laicità, e come in tal modo non si neghino i fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è per me – lo confesso – un mistero.
 
Anche una seconda proposizione merita di essere indagata: «Fino a che punto i popoli uniti in stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà?»
 
Qui, l’attenzione cade su quel "precedere". Se la garanzia precede la libertà, non può che essere un legame che viene da fuori, non dall’autonomia dei singoli: un legame in qualche modo indotto, se non imposto, per via di autorità. La Chiesa, ammesso ch’essa possegga la riserva delle risorse etiche, potrebbe allora legittimamente chiedere che le si assicurino i mezzi per farle valere vincolativamente. Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere in questa offerta di collaborazione qualcosa di oltraggioso nei confronti della religione di Gesù di Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il teorico secentesco della ragion di Stato, dello Stato della Controriforma: «Tra tutte le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la ragion di Stato, fratel mio, obedir alla Chiesa cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio Cesare Capaccio, nel 1634.
 
Non risulta facilmente comprensibile come questa "precedenza" del legame unificante si accordi con l’altra affermazione di Böckenförde, questa sì pienamente conforme all’idea dello Stato secolare basato sulla libertà, che «la religione si dispiega […] nella società civile e nel suo ordinamento» e che da lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato, quale «organizzazione vincolante dell’umana convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti nessun bisogno di postulare un legame unificante che "preceda la libertà": esso si formerebbe infatti, precisamente, nella libertà.
 
È in questa "precedenza" che si annida la questione. Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale – l’odierno Stato secolare basato sulla libertà –, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile. Il problema non sono i credenti ma è la Chiesa, quando chiede e ottiene alleanza con lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente, il problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa questa alleanza interessata. Noi, in Italia, conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno e lo conosciamo nella forma più esplicita, quella del Cattolicesimo "religione di Stato", esistente fino a subito prima della Costituzione repubblicana, dallo Statuto Albertino fino al fascismo.
 
L’idea di un legame sostanziale unificante precedente la libertà corrisponde a un’idea di democrazia protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità dell’essere umano; sull’autodeterminazione delle persone sottoposte a trattamenti medici forzati, ecc., la Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale contengono indicazioni certo non trascurabili, per chi pensa che i fondamenti etici della convivenza siano da ricercare nella libertà; invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona "precedendo" l’esercizio della libertà che ha portato alla formulazione dei principi della Costituzione. Così come, più in generale, sono ignorati sia il principio di laicità sia i suoi contenuti, quali determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le divagazione su "nuove", "sane" ecc. laicità che provengono numerose da ambienti ecclesiastici e si riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte in cui si discute di politica ecclesiastica, sembrano non conoscere o, almeno, non tenere in conto i vincoli costituzionali, come il principio di equidistanza e il divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni religiose per rafforzare le obbligazioni civili e, al contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La proposta del cristianesimo come legame unificante precedente contraddice precisamente questa separazione.
 
Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque, per così dire, reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un problema che non può essere trascurato. Ma è un problema sociale, non politico o statale. Si dirà: il legame tra la religione e la politica e quindi lo Stato è un legame profondo, tutt’altro che accidentale. Lo si vede all’opera dalla preistoria fino quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può apparire che lo Stato secolarizzato dell’Europa occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto una deviazione, un Sonderweg, secondo l’espressione di Jürgen Habermas, destinato in breve a rientrare. E perfino il più radicale movimento politico fondato sull’immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito l’esigenza di divinizzare il suo regime. Invece, le società secolari odierne basate sulla libertà pensano di farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la rinuncia a usare un Dio per i propri fini politici non è forse, precisamente, la grande sfida ch’esse hanno accettato "per amore della libertà"?
 
(Da la Repubblica, 17 ottobre 2007)

sabato 17 novembre 2007

Verita' per Aldo

La storia ce l´ha raccontata su “Repubblica” Jenner Meletti. E´ morto in carcere, per cause ancora da accertare, un falegname umbro, Aldo Bianzino, arrestato il giorno prima perché coltivava cannabis per farne uso personale. Una persona mite, che viveva pacificamente in mezzo alla natura, certo non pericolosa per gli altri, che lascia un figlio minorenne e una compagna disperata. Proprio in questi giorni e in queste ore, con l´atroce delitto di Roma che esaspera la questione già rovente della sicurezza, della violenza, dell´immigrazione rom fuori controllo, viene spontaneo domandarsi per quale assurdo criterio giudiziario, o politico, o culturale, un uomo debba morire in carcere perché gli piaceva farsi le canne (tra parentesi: ieri la Cassazione ha “depenalizzato” la coltivazione di cannabis per “uso ornamentale”…). C´è una specie di folle sproporzione, di abnorme iniquità tra le notizie di rapinatori o di assassini rimessi in libertà con evidente imprevidenza, e vicende come questa, dalle quali la legge e la giustizia escono con una patente di totale stupidità. Una stupidità che avrà certamente le sue spiegazioni “tecniche”, i suoi alibi procedurali. Ma lascia di ghiaccio.
Uno Stato con i nervi saldi non se la prende con gli hippies: se non altro perché avrebbe cose più urgenti e più serie da fare.
(dall'Amaca di Michele Serra 2/11/2007)

lunedì 18 giugno 2007

XI little help

Performing Initial Adapter Engine Cache Refresh. Perform the initial cache refresh of the Adapter Engine by executing the following URL: http://<host>:<Java-Port>/CPACache/refresh?mode=full Where <host> is the Adapter Engine host and <Java-Port> is the HTTP port of the J2EE engine (The following naming convention applies: 5<Java_instance_number>00. 50000, for example, if your Java instance is 00).
Log on data: XIDIRUSER with password
Check that the response indicates that the cache refresh has been successfully executed.

Example: http://sap358:55800/CPACache/refresh?mode=full

Patching XI server (nota 750511):

  1. Create a database backup.
  2. Import the latest kernel patch (refer to note 19466).
  3. Import the Support Package for SAP Basis 6.40 that matches your XI target Support Package (refer to notes 83458 and 672651). BASIS & ABA
  4. Import the Support Package for your SAP J2EE Engine which is included in the corresponding Support Package Stack.
  5. Check if the Software Delivery Manager (SDM) runs in integrated mode, that is, dependently of the J2EE engine. This mode enables SDM to control the J2EE status during deployment.
    For this purpose, execute the following three commands:
    Windows (in the \usr\sap\<SID>\<instance>\SDM\program folder)
    StopServer.bat
    sdm.bat jstartup "mode=integrated"
    StartServer.bat
    Unix (in the /usr/sap/<SID>/<instance>/SDM/program folder)
    StopServer.sh
    sdm.sh jstartup mode=integrated
    StartServer.sh

  6. Start the RemoteGui of the SDM and deploy the archives:

  • SAPXIAFCnn_m.sca of the software component XI ADAPTER FRAMEWORK CORE 3.0
  • SAPXIAFnn_m.sca of the software component XI ADAPTER FRAMEWORK 3.0
  • SAPXITOOLnn_m.sca of the software component XI TOOLS 3.0

in one deployment action (see note 656711). SDM will control the J2EE for the offline deployment of SAPXIAFCnn_m.sca. In addition to the RemoteGui status information you may tail sdmlog.log in the "/usr/sap/<SID>//SDM/program/log" folder for detailed deployment status including J2EE shutdown and restart. 7. Import the relevant content for the XI Support Package release, that is, the SAPBASISnn_m.zip archive of the XI CONTENT SAP_BASIS 6.40 software component (see note 705541).

  • Note 750511 - SAP Exchange Infrastructure 3.0: Patch procedure >= SP04 | Support package stack guide <-- PDF
  • kernel update su NW04 e superiori: gli eseguibili vanno aggiornati su piu' locazioni (3)
  • Note 656711 - Deploying Java Support Packages with SDM
  • Note 705541 - XI 3.0 (Support Package 1 and higher): Importing XI Content

integration builder: tcode SXMB_IFR

XI high level process flow. I assume you already know the components and terminologies before we proceed into this section. In a nutshell the end to end process flow of SAP XI is depicted over here:

  1. Create products, software component versions, technical systems, business systems in the System Landscape Directory (SLD).
  2. Import the software component version into the Integration Repository (IR) from the SLD and start developing the source/target messages, source/target message interfaces and mapping between source and target systems.
  3. Import the business systems into the Integration Directory (ID) and start configuring the sender/receiver communication channels, agreements, receiver and interface determination that binds the interfaces and the routing.
  4. Once the configuration is complete we need to test the interface and see if the message is sent from the sender to the receiver successfully or correct the error if it occurred. You do it through the monitoring the tools Runtime Work Bench in the Integration Builder and using sxmb_moni transaction code in the ABAP stack of SAP XI.

Rationale for isolating various components in SAP XI:
One of the most frequent questions that might arise about the architecture is that rationale behind isolating various components. The reason is simple Reusability of the Integration Content. I need an example whenever some one enlightens me with their knowledge. The best example for this case is the separation of integration repository and integration directory allows you to re-use the message interfaces and mapping logics for any system landscape. All you just need to do is to import the .tpz file into any repository and configure it according to the customer system landscape. Do you agree with me?

What happens when a message reaches SAP XI?
This is some thing who wants to learn SAP XI has to understand for trouble shooting the errors that might occur in the message life cycle. Refer Message Lifecycle in SAP XI.

Configurations that has to be set in SAP XI system:
After the SAP XI system is installed by your SAP Basis you need to do some configuration and system readiness check before the starting the developments of SAP XI. Configurations are usually done by SAP basis but these links might be handy to understand weird errors that occur commonly in SAP XI. Refer the links SAP XI configuration and the SAP note 817920 for system readiness check.XI_flow

domenica 15 aprile 2007

Esportare la democrazia?

Esportare la democrazia è possibile, ma l'ostacolo è il monoteismo di Giovanni Sartori

Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po' dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell'acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. (...)
A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia — e più esattamente la liberaldemocrazia — è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La «democrazia degli altri» non c'è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato «in grande». Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l'imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano.
Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi? Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile.
In questa ottica il concetto di liberaldemocrazia deve essere scomposto nei due elementi — liberale e democratico — che lo compongono. La componente liberale è «liberante»: libera il demos dalla oppressione, dalla servitù, dal dispotismo. La componente democratica è, invece, «potenziante» nel senso che potenzia il demos. Il che può essere ridetto così: che la liberaldemocrazia è in primo luogo demoprotezione, la protezione del popolo dalla tirannide; e, secondo, demopotere, l'attribuzione al popolo di quote, e anche quote crescenti, di effettivo esercizio del potere. Storicamente parlando, la creazione di un demos libero da, libero dalla oppressione politica, e quindi politicamente protetto, è specialmente dovuta a Locke e al costituzionalismo liberale. Ma un demos libero è anche un demos che entra nella «casa del potere», che si afferma domandando e ottenendo. E questa è la componente specificatamente democratica della liberaldemocrazia. Quale elemento — la demoprotezione o il demopotere — è il più importante? (...)
L'importanza in questione è procedurale: stabilire cosa viene prima e cosa viene dopo, quali siano le fondamenta della costruzione, e perciò stesso quale sia il supporto fondante dell'insieme. Se non c'è prima libertà da, non ci sarà dopo libertà di; se non c'è prima demoprotezione non ci può essere demopotere. Dovrebbe essere ovvio. Purtroppo non lo è. Quindi insisto, debbo insistere: la componente liberale della liberaldemocrazia ne è la condizione necessaria sine qua non, mentre la componente democratica ne è l'elemento variabile che ci può essere ma anche non essere. Il che equivale a dire che la demoprotezione costituisce una definizione minima della democrazia che ne è anche la definizione essenziale, mentre il demopotere ne definisce le caratteristiche contingenti che si possono manifestare in diverso modo e misura.

Torniamo alla esportabilità. Se, come ho appena detto, la demoprotezione è l'elemento necessario - minimo della liberaldemocrazia, ne consegue che ne dovrebbe anche essere l'elemento universale, o comunque più universabilizzabile, più facile da esportare. Questo trapianto può avvenire per contagio, e quindi in modo endogeno, oppure può risultare da una sconfitta militare ed essere una esportazione imposta con la forza. Gli esempi più citati di democrazia costituzionale imposta con successo dalle armi e da una occupazione militare sono, a seguito della Seconda guerra mondiale, Giappone, Germania e Italia. Ma questo è un assemblaggio statistico stupido, nel quale soltanto il Giappone è un caso significativo. La Germania nazista era stata preceduta dalla Repubblica di Weimar, e l'Italia fascista dall'Italia risorgimentale e giolittiana. In questi due casi il ritorno alla democrazia sarebbe avvenuto comunque o sarebbe stato pactado (come lo è stato in Spagna alla morte del generale Franco). Il Giappone sta invece a sé, è un caso reso diverso dalla sua netta eterogeneità culturale. E qui la lunga occupazione militare americana è stata senza dubbio determinante. Però è anche vero che la cultura giapponese si prestava al trapianto. Intanto, e in primo luogo, il Giappone era da tempo un Paese modernizzato; tale in virtù della cosiddetta, ed erroneamente detta, restaurazione Meiji della seconda metà dell'800. In secondo luogo, quando arrivò il generale MacArthur i giapponesi obbedivano all'imperatore, e l'imperatore ordinò ai suoi sudditi di obbedire al proconsole americano. Infine, e in terzo luogo, in Giappone non c'era un ostacolo religioso: lo scintoismo dei giapponesi è una religione, per così dire, molto tranquilla e molto laica. Così la democratizzazione del Giappone non pose problemi e non si imbatté in ostacoli. Il caso del Giappone dimostra più e meglio di ogni altro che la democrazia non è necessariamente vincolata al sistema di credenze e di valori della civiltà occidentale. I giapponesi restano culturalmente giapponesi ma apprezzano, allo stesso tempo, il metodo di governo occidentale.
Ma il caso più significativo è quello dell'India, che ha assorbito dalla lunga presenza e dominazione degli inglesi (non certo da inesistenti credenziali autoctone) le regole del costituzionalismo britannico e le ha poi mantenute e fatte proprie. Ma l'ostacolo religioso era, in India, più serio e complesso che in Giappone. Le grandi religioni indiane sono, nell'ordine, l'induismo, il buddismo e l'islamismo. L'induismo definisce l'identità del Paese, si tinge sempre più di nazionalismo e non è sempre una religione placida; però è anche una religione panteistica e sincretistica. Può accettare, come di fatto ha accettato, la democrazia. D'altra parte il buddismo è una religione meditativa che non pone problemi. Problemi che sono invece irriducibilmente creati dal monoteismo islamico. Tant'è vero che quando gli inglesi se ne andarono, si dovettero rassegnare a smembrare l'India creando un territorio islamico che poi si è a sua volta suddiviso in due Stati: il Pakistan e il Bangladesh. Qui importa sottolineare, primo, che senza questo scorporo l'India rischiava di essere dilaniata, nonostante mille anni di coesistenza, da una terribile guerra civile; secondo, che se l'India è una democrazia è perché l'ostacolo islamico è stato largamente rimosso dalla spartizione del Paese. Anche per l'India, come per il Giappone, si può quindi concludere che una eterogeneità culturale non impedisce l'adozione di una democrazia di tipo occidentale. La religione non è un ostacolo se e quando può accettare la laicità della politica. Il che spiega come mai l'India sia una democrazia «importata» che peraltro lascia gli indiani come sono, e cioè culturalmente indiani.
Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell'ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così.

venerdì 30 marzo 2007

Famiglia naturale

La «famiglia naturale»? Non esiste, perché la natura è violenza, caos e incesto ..

di Dacia Maraini
Il Papa sostiene, con ostinato candore, che si deve difendere la famiglia naturale. Ma cosa intende per natura, viene da chiedere.
Ogni normativa sociale, se guardiamo bene, va contro natura
. Nel mondo naturale il più grosso mangia il più piccolo, il più robusto schiavizza il più debole, le madri si accoppiano con i figli, i padri con le figlie, i fratelli con le sorelle. In natura non esiste morale, se per morale intendiamo prescrizioni che gli uomini si scelgono per vivere nello stesso Paese, nella stessa città, nella stessa casa, senza scannarsi a vicenda. Proprio per difendere la famiglia artificiale creata dall'uomo, sono state stabilite discipline che impediscono il vivere selvaggio del nucleo originale: l'incesto per esempio, presente in tutte le specie, anche nell'uomo, addirittura ammesso in certe circostanze storiche — vedi gli antichi egiziani — è stato proibito, come racconta bene Malinowski, per permettere alle prime tribù di espandersi, andare a cercare altre tribù, intrecciare rapporti e quindi aprire scambi di idee, di conoscenze, di esperienze.
Se per etica intendiamo i regolamenti che una società stabilisce per vivere meglio insieme, evitando le grandi ingiustizie, punendo i trasgressori e aiutando i più deboli, certo l'etica non è un prodotto della natura ma una difficile e nobile prassi che l'uomo avoca a sé, in nome di un Dio che sceglie di applicare la giustizia, concetto assolutamente contrario alla natura. La giustizia a volte sembra un'utopia, ma ciò che rende umani gli uomini è proprio il continuo ossessivo tentativo di sostituire la crudeltà brutale delle cose con una voglia di comunità, di uguaglianza, di fraternità. Ogni volta che la natura crea un disastro, l'uomo cerca di rimediare. Perché la natura vuole sì la riproduzione dell'uomo, ma spesso e volentieri solleva le sue forze devastatrici che distruggono con un solo colpo migliaia di corpi umani.Anche l'omosessualità esiste in natura, come dimostrano tanti popoli che l'hanno ammessa e praticata legalmente. Eppure spesso è stata proibita, soprattutto quando c'era pericolo di estinzione per un popolo, quando metà dei figli morivano di malattia e c'era un bisogno assoluto di braccia da lavoro. Con la crescita di un certo benessere e con la sovrappopolazione, cambiano le prospettive e l'intolleranza diminuisce.
Certo la natura, quando vuole riprodursi, accoppia due persone di sesso opposto. Ma poiché abbiamo guastato e corrotto l'aria che respiriamo e l'acqua che beviamo, gli uomini soffrono sempre più di sterilità. E per ovviare a un dato naturale — la sterilità — le società avanzate hanno inventato l'adozione, che non esiste in natura, hanno inventato la riproduzione assistita che aiuta coloro che vogliono avere figli, a farli.
Infine potremmo anche chiederci cosa c'è di naturale nella castità dei preti. Nessuno mette in discussione la legittimità della loro scelta, ma ciò non dà diritto a chi preferisce la verginità, di decidere come gli altri, uomini e donne, debbano vivere la propria sessualità.Cosa c'è di naturale nell'educazione? Nei libri? Nelle scuole? Nella scienza? E perfino nella monogamia? L'uomo per natura è poligamo, come lo sono la maggioranza degli animali. Anche le donne per natura sono probabilmente molto più poliandriche di quanto si pensi. Eppure la civiltà ha scelto la monogamia proprio per difendere quella famiglia del tutto artificiale che si oppone, per ragioni morali, e quindi non naturali, allo sperpero e al caos. Insomma un poco più di prudenza nell'uso della parola natura perché può rivoltarsi contro chi la usa. E' l'uomo ad aver costituito una struttura «artificiale» per difendersi da disastri e disordine.

domenica 25 marzo 2007

Scegliere la pace

David Grossman | da LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA, Numero 99 del 12.11.2006
 
Il ricordo di Yitzhak Rabin e' un momento di pausa in cui riflettiamo anche su noi stessi. Quest'anno la riflessione non e' per noi facile. C'e' stata una guerra. Israele ha messo in mostra una possente muscolatura militare dietro la quale ha pero' rivelato debolezza e fragilita'. Abbiamo capito che la potenza militare in mano nostra non puo', in fin dei conti, garantire da sola la nostra esistenza. Abbiamo soprattutto scoperto che Israele sta attraversando una crisi profonda, molto piu' profonda di quanto immaginassimo, una crisi che investe quasi tutti gli aspetti della nostra esistenza. Parlo qui, stasera, in veste di chi prova per questa terra un amore difficile e complicato, e tuttavia indiscutibile.
Come chi ha visto trasformarsi in tragedia, in patto di sangue, il patto che aveva sempre mantenuto con essa. Io sono laico, eppure ai miei occhi la creazione e l'esistenza stessa di Israele sono una sorta di miracolo per il nostro popolo, un miracolo politico, nazionale e umano; e io non lo dimentico neppure per un istante. Anche quando molti episodi della nostra realta' suscitano in me indignazione e sconforto, anche quando il miracolo si frantuma in briciole di quotidianita', di miseria e di corruzione, anche quando la realta' appare una brutta parodia del miracolo, esso per me rimane tale.
"Guarda o terra, quanto abbiamo sprecato", scriveva il poeta Shaul Tchernikovsky nel 1938 lamentandosi del fatto che nel suolo della terra di Israele venivano seppelliti ragazzi nel fiore degli anni. La morte di giovani e' uno spreco terribile, lancinante. Ma non meno terribile e' che Israele sprechi in modo criminale non solo le vite dei suoi figli ma anche il miracolo di cui e' stato protagonista, l'opportunita' grande e rara offertagli dalla storia, quella di creare uno stato illuminato, civile, democratico, governato da valori ebraici e universali. Uno stato che sia dimora nazionale, rifugio e anche luogo che infonda un nuovo senso all'esistenza ebraica. Uno stato in cui una parte importante e sostanziale della sua identita' ebraica, della sua etica ebraica, sia mantenere rapporti di completa uguaglianza e di rispetto con i suoi cittadini non ebrei.
E guardate cosa e' successo. Guardate cosa e' successo a una nazione giovane, audace, piena di entusiasmo. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele e' passato da una fase di infanzia e di giovinezza, a uno stato di costante lamentela, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un'occasione. Com'e' successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita migliore? E come possiamo oggi rimanere a guardare, come ipnotizzati, il dilagare della follia, della rozzezza, della violenza e del razzismo in casa nostra? Com'e' possibile che un popolo dotato di energie creative e inventive come il nostro, che ha saputo risollevarsi piu' volte dalle ceneri, si ritrovi oggi, proprio quando possiede una forza militare tanto grande, in una situazione di inerzia e di impotenza? Situazione in cui e' nuovamente vittima, ma questa volta di se stesso, dei suoi timori, della sua disperazione e della sua miopia.
 

 


 

 
Uno degli aspetti piu' gravi messi in luce dalla guerra e' che attualmente non esiste un leader in Israele. Che la nostra dirigenza politica e militare e' vuota di contenuto. E non mi riferisco agli evidenti errori commessi nella conduzione della guerra o all'abbandono delle retrovie a se stesse. Non mi riferisco nemmeno agli episodi di corruzione, grandi e piccoli, agli scandali, alle commissioni d'inchiesta.
Mi riferisco al fatto che chi ci governa oggi non e' in grado di far si' che gli israeliani si rapportino alla loro identita' e tanto meno agli aspetti piu' sani, vitali e fecondi di essa; non agli elementi della loro memoria storica che possano infondere in loro forza e speranza, che li incoraggino ad assumersi responsabilita' gli uni nei confronti degli altri e diano un qualsiasi significato alla sconfortante e spossante lotta per l'esistenza. La maggior parte dei leader odierni non e' in grado di risvegliare negli israeliani un senso di continuita' storica e culturale. O di appartenenza a uno schema di valori chiaro, coerente e consolidato negli anni. I contenuti principali di cui l'odierna dirigenza israeliana riempie il guscio del suo governo sono la paura da un lato e la creazione di ansie dall'altro, il miraggio della forza, l'ammiccamento al raggiro, il misero commercio di tutto cio' che ci e' piu' caro.
In questo senso non sono dei veri leader. Certo non i leader di cui un popolo tanto disorientato e in una situazione tanto complessa come quella israeliana ha bisogno. Talvolta pare che l'eco del pensiero dei nostri leader, la loro memoria storica, i loro ideali, tutto quello che e' veramente importante per loro, non oltrepassi il minuscolo spazio esistente tra due titoli di giornale. O le pareti dell'ufficio del procuratore generale dello Stato. Osservate chi ci governa. Non tutti, naturalmente, ma troppi fra loro. Osservate il loro modo di agire, spaventato, sospettoso, affannato; il loro comportamento viscido e intrigante. Quando e' stata l'ultima volta che il Primo Ministro ha espresso un'idea o compiuto un passo in grado di spalancare un nuovo orizzonte agli israeliani? Di prospettare loro un futuro migliore? Quando mai ha intrapreso un'iniziativa sociale, culturale, morale, senza limitarsi a reagire scompostamente a iniziative altrui?
 

 


 

 
Signor Primo Ministro. Non parlo spinto da un sentimento di rabbia o di vendetta. Ho aspettato abbastanza per non reagire mosso dall'impulso del momento. Questa sera lei non potra' ignorare le mie parole sostenendo che "Non si giudica una persona nel momento della tragedia".
E' ovvio che sto vivendo una tragedia. Ma piu' di quanto io provi rabbia, provo dolore. Provo dolore per questa terra, per quello che lei e i suoi colleghi state facendo. Mi creda, il suo successo e' importante per me perche' il futuro di noi tutti dipende dalla sua capacita' di agire. Yitzhak Rabin aveva imboccato il cammino della pace non perche' provasse grande simpatia per i palestinesi o per i loro leader. Anche allora, come ricordiamo, era opinione generale che non avessimo un partner e che non ci fosse nulla da discutere con i palestinesi. Rabin si risolse ad agire perche' capi', con molta saggezza, che la societa' israeliana non avrebbe potuto resistere a lungo in uno stato di conflitto irrisolto. Capi', prima di molti altri, che la vita in un clima costante di violenza, di occupazione, di terrore, di ansia e di mancanza di speranza, esigeva un prezzo che Israele non avrebbe potuto sostenere. Tutto questo e' vero anche oggi, ed e' ancora piu' impellente.
 

 


 

 
Da piu' di un secolo ormai viviamo in uno stato di conflitto. Noi, cittadini di questo conflitto, siamo nati nella guerra, siamo stati educati nella guerra e, in un certo senso, siamo stati programmati per la guerra. Forse per questo pensiamo talvolta che questa follia in cui viviamo ormai da cento anni sia l'unica, vera realta'. L'unica vita destinata a noi e che non abbiamo la possibilita', o forse neppure il diritto, di aspirare a una vita diversa: vivremo e moriremo con la spada e combatteremo per l'eternita'.
Forse per questo siamo cosi' indifferenti al totale ristagno del processo di pace. Forse per questo la maggior parte di noi ha accettato con indifferenza il rozzo calcio sferrato alla democrazia dalla nomina di Avigdor Lieberman a ministro, un potenziale piromane posto a capo dei servizi statali responsabili di spegnere gli incendi. Questi sono anche, in parte, i motivi per cui, in tempi brevissimi, Israele e' precipitato nell'insensibilita', nella crudelta', nell'indifferenza verso i deboli, verso i poveri, verso chi soffre, verso chi ha fame, verso i vecchi, i malati, gli invalidi, il commercio di donne, lo sfruttamento e le condizioni di schiavitu' in cui vivono i lavoratori stranieri e verso il razzismo radicato, istituzionale, nei confronti della minoranza araba. Quando tutto questo accade con totale naturalezza, senza suscitare scandali ne' proteste, io comincio a pensare che anche se la pace giungera' domani, anche se un giorno torneremo a una situazione di normalita', abbiamo forse gia' perso l'opportunita' di guarire.
 

 


 

 
La tragedia che ha colpito me e la mia famiglia non mi concede privilegi nel dibattito politico ma ho l'impressione che il dover affrontare la morte e la perdita di una persona cara comporti anche una certa lucidita' e chiarezza di sguardo, per lo meno per quanto riguarda la distinzione tra cio' che e' importante e cio' che e' secondario, tra cio' che e' possibile ottenere e cio' che e' impossibile. Tra la realta' e il miraggio.
Ogni persona di buon senso in Israele - e aggiungo, anche in Palestina - sa esattamente quale sara', a grandi linee, la soluzione del conflitto tra i due popoli. Ogni persona di buon senso e' anche consapevole in cuor suo della differenza tra sogno e aspirazione e cio' che e' possibile ottenere alla fine di un negoziato. Chi non lo sa, arabo o ebreo che sia, non e' gia' piu' un possibile interlocutore, e' prigioniero di un fanatismo ermetico e non e' quindi un possibile partner. Consideriamo un attimo il nostro partner. I palestinesi hanno scelto come loro guida Hamas che rifiuta di negoziare con noi e di riconoscerci. Cosa si puo' fare in una situazione simile? Cos'altro ci rimane da fare? Continuare a soffocarli? A uccidere centinaia di palestinesi a Gaza, per la maggior parte semplici cittadini come noi?
 

 


 

 
Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert. Si rivolga a loro al di sopra delle teste di Hamas. Si appelli ai moderati, a chi si oppone, come lei e me, a Hamas e alla sua strada. Si appelli al popolo palestinese. Non si ritragga dinanzi alla sua ferita profonda, riconosca la sua continua sofferenza.
Lei non perdera' nulla, e neppure Israele, in un futuro negoziato. Solo i cuori si apriranno un poco gli uni agli altri, e questa apertura racchiudera' in se' una forza enorme. In una simile situazione di immobilita' e di ostilita' la semplice compassione umana possiede la forza di una cataclisma naturale.
Per una volta tanto guardi i palestinesi non attraverso il mirino di un fucile o da dietro le sbarre chiuse di un check point. Vedra' un popolo martoriato non meno di noi. Un popolo conquistato, oppresso e senza speranza. E' ovvio che anche i palestinesi sono colpevoli del vicolo cieco in cui ci troviamo. E' ovvio che anche loro sono ampiamente responsabili del fallimento del processo di pace. Ma li guardi un momento con occhi diversi. Non solo gli estremisti fra loro. Non solo chi ha stretto un patto di interesse con i nostri estremisti. Guardi la maggior parte di questo povero popolo il cui destino e' legato al nostro, che lo si voglia o no.
 

 


 

 
Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert, non continui a cercare ragioni per non dialogare con loro. Ha rinunciato all'idea di un nuovo ritiro unilaterale, e ha fatto bene. Ma non lasci un vuoto che verrebbe immediatamente colmato dalla violenza e dalla distruzione. Intavoli un dialogo. Avanzi una proposta che i moderati (e fra loro sono piu' di quanto i media ci mostrino) non possano rifiutare. Lo faccia, in modo che i palestinesi possano decidere se accettarla o se rimanere ostaggi dell'Islam fanatico. Presenti loro il piano piu' coraggioso e serio che Israele e' in grado di proporre. La proposta che agli occhi di ogni israeliano e palestinese sensato contenga il massimo delle concessioni, nostre e loro. Non stia a discutere di bazzecole. Non c'e' tempo.
Se tentennera', fra poco avremo nostalgia del dilettantismo del terrorismo palestinese. Ci batteremo il capo urlando: come abbiamo potuto non fare ricorso a tutta la nostra elasticita' di pensiero, a tutta la creativita' israeliana, per strappare i nostri nemici dalla trappola in cui si sono lasciati cadere? Proprio come ci sono guerre combattute per mancanza di scelta, c'e' anche una pace che si rincorre per "mancanza di scelta". Non abbiamo scelta, ne' noi ne' loro. E dobbiamo aspirare a questa pace forzosa con la stessa determinazione e creativita' con cui partiamo per una guerra forzosa. Perche' non c'e' scelta e chi ritiene che ci sia, che il tempo giochi a nostro favore, non capisce i processi pericolosi in cui gia' ci troviamo.
 

 


 

 
E piu' in generale, signor Primo Ministro, forse dovremmo rammentarle che se un qualsiasi leader arabo invia segnali di pace - anche impercettibili e titubanti - lei ha il dovere morale di rispondere. Ha il dovere di verificare immediatamente l'onesta' e la serieta' di quel leader. Deve farlo per coloro ai quali chiede di sacrificare la vita nel caso scoppi una nuova guerra. E quindi, se il presidente Assad dice che la Siria vuole la pace - per quanto lei non gli creda e tutti noi nutriamo sospetti nei suoi confronti - deve offrirgli di incontrarlo subito. Senza aspettare nemmeno un giorno. In fondo, non ha aspettato nemmeno un'ora a dare inizio all'ultima guerra. Si e' lanciato nell'offensiva con tutte le sue forze. Con tutte le armi a disposizione e tutta la loro potenza distruttiva.
Allora perche' quando c'e' un segnale di pace lei si affretta a respingerlo, a lasciarlo svanire? Cos'ha da perdere? Nutre forse dei sospetti nei confronti del presidente siriano? Allora gli presenti delle condizioni tali da rivelare la sua macchinazione. Gli proponga un processo di pace che duri qualche anno e alla fine del quale, se tutte le condizioni e le restrizioni verranno rispettate, gli verranno restituite le alture del Golan. Lo costringa al dialogo. Agisca in modo che nella coscienza del popolo siriano si delinei anche questa possibilita'. Dia una mano ai moderati, che sicuramente esistono anche lassu'. Cerchi di plasmare la realta'...
E' stato eletto per questo. Esattamente per questo.
 

 


 

 
E in conclusione. E' ovvio che non tutto dipende da noi e ci sono forze grandi e potenti che agiscono in questa regione e nel mondo e alcune di loro - come l'Iran e come l'Islam radicale - non hanno buone intenzioni nei nostri confronti. Eppure molto dipende da come agiremo noi, da cio' che saremo. Attualmente non esiste grande disparita' tra la sinistra e la destra. La stragrande maggioranza degli israeliani capisce ormai - per quanto alcuni senza troppo entusiasmo - quale sara' a grandi linee la soluzione del conflitto: questa terra verra' divisa, sorgera' uno stato palestinese. Perche', quindi, continuare a sfibrarci in una querelle intestina che dura da quasi quarant'anni? Perche' la dirigenza politica continua a rispecchiare le posizioni dei radicali e non quelle della maggior parte degli elettori? Dopo tutto la nostra situazione sarebbe migliore se raggiungessimo un'intesa nazionale prima che le circostanze - pressioni esterne, una nuova Intifada o una nuova guerra - ci costringano a farlo. Se lo faremo risparmieremo anni di sangue versato e di spreco di vite umane. Anni di terribili errori. Mi appello a tutti, ai reduci dalla guerra che sanno che dovranno pagare il prezzo del prossimo scontro armato, ai sostenitori della destra, della sinistra, ai religiosi e ai laici: fermatevi un momento, guardate l'orlo del baratro, pensate a quanto siamo vicini a perdere quello che abbiamo creato. Domandatevi se non sia arrivata l'ora di scuoterci dalla paralisi, di fare una distinzione tra cio' che e' possibile ottenere e cio' che non lo e', di esigere da noi stessi, finalmente, la vita che meritiamo di vivere.

sabato 24 marzo 2007

Borghesi

Quand’ero piccolo non stavo mica bene
ero anche magrolino, avevo qualche allucinazione
e quando andavo a cena, nel tinello con il tavolo di noce
ci sedevamo tutti e facevamo il segno della croce.

[Parlato] Dopo un po’ che li guardavo mi si trasformavano: i gesti preparati, degli attori, attori consumati che dicono la battuta e ascoltano l’effetto. Ed io ero lì come una comparsa, vivevo la commedia, anzi no la farsa, e chissà perché durante questa allucinazione mi veniva sempre in mente una stranissima canzone:

I borghesi son tutti dei porci
più sono grassi più sono lerci
più son lerci e più c’hanno i milioni
i borghesi son tutti…

Quand’ero piccolo non stavo mica bene
ero anche molto magro, avevo sempre qualche allucinazione
e quando andavo a scuola mi ricordo di quel vecchio professore
bravissima persona che parlava in latino ore e ore.

[Parlato] Dopo un po’ che lo guardavo mi si trasformava, sì, la bocca si chiudeva stretta, lo sguardo si bloccava, il colore scompariva, fermo, immobile, di pietra, sì, tutto di pietra, e io vedevo già il suo busto davanti a un’aiuola con su scritto: "Professor Malipiero – una vita per la scuola", e chissà perché anche durante questa allucinazione mi veniva sempre in mente una stranissima canzone:

I borghesi son tutti dei porci
più sono grassi più sono lerci
più son lerci e più c’hanno i milioni
i borghesi son tutti…

Adesso che son grande ringrazio il Signore
mi è passato ogni disturbo senza bisogno neanche del dottore
non sono più ammalato, non capisco cosa mi abbia fatto bene
sono anche un po’ ingrassato, non ho più avuto neanche un’allucinazione.

[Parlato] Mio figlio, mio figlio mi preoccupa un po’, è così magro, e poi ha sempre delle strani allucinazioni, ogni tanto viene lì, mi guarda e canta, canta un canzone stranissima che io non ho mai sentito:

I borghesi son tutti dei porci
più sono grassi e più sono lerci
più son lerci e più c’hanno i milioni
i borghesi son tutti…
mah!

Gaber / Luporini: Brano rielaborato dall'omonima canzone di Jacques Brel.

giovedì 22 marzo 2007

HowTo upgrade a Sap instance

Premessa

Questa documentazione descrive quali sono gli step generali che si devono obbligatoriamente seguire per eseguire un upgrade con successo di una release di SAP

  • Passi Preliminari

Qui vengono descritti i passi preliminari con un ordine specifico da seguire prima di arrivare alla esecuzione delle fasi di prepare dell’upgrade

a) identificazione di release di partenza e di arrivo

b) reperire il manuale di upgrade alla release di arrivo

c) check delle note in esso contenute e dei relativi rimandi ad altre note

d) particolare attenzione al livello di support package attuali, se sono particolarmente elevati nel sistema di arrivo si deve studiare un livello di patch da inserire durante l’upgrade per prevenire problemi di perdita di correzioni utili

e) Non consentire di modificare il livello di support package di produzione DOPO aver eseguito l’upgrade nel sistema di TEST al fine di non trovarsi in una situazione inaspettata

f) porre attenzione alla release del database richiesto per eseguire correttemente la fase di prepare

g) Documentare OPPORTUNAMENTE qualsiasi passo di preparazione per non trovarsi spiazzati nell’upgrade di produzione

  • Passi di preparazione

In un landscape standard SVILUPPO-TEST-PRODUZIONE il modo corretto di procedere e’

1) refresh ambiente di produzione sull’ambiente di TEST. Pareggiamento profili d’istanza con i parametri presenti nella produzione per avere il piu’ possibile un ambiente speculare alla produzione. Tenere conto delle risorse del sistema di test per la parametrizzazione dei buffer SAP e parametrizzazione Oracle.

2) Adeguamento parametrizzazione Sistema Operativo secondo gli ultimi dettami SAP e soprattutto se il sistema operativo e’ supportato per la release di arrivo sia di SAP che di oracle

3) Accertarsi di avere tutte le librerie specifiche richieste dall’upgrade e di avere un release di java installata, funzionante ed il cui path e’ presente nel path dell’utente [sid]adm

4) Scarico delle support package richieste e relativo unpacking nella EPS/in del sistema in questione. Molte procedure di upgrade richiedono anche di inserire nella EPS/in sia la SPAM update del sistema di arrivo che quella di partenza. Per quest ultima e’ opportuno caricarla prima della partenza della prepare

5) Scaricare sempre l’ultima versione del tool di upgrade (R3up SAPup etc etc ) da porre nella /bin e di conseguenza anche le relative FIX . Devono essere ENTRAMBE all’ultima versione.

6) Scaricare i CD possibilmente in un'unica cartella e o filesystem denominando ogni singolo CD con una nomenclatura di facile interpretazione (eg KERNELCD , EXPORT1 , LANG1 etc etc )

7) Porre attenzione ad eventuali script ( in particolare per oracle) che possano accelerare alcune fasi di upgrade. Al termine dell’upgrade eseguire gli script di ripristino della situazione esistente

8) Predisporre sempre un backup offline del DB , dei file di environment di SIDADM (nel caso di sistemi windows fare backup anche del registry) , e del kernel PRIMA di partire con la PREPARE e prima anche del lancio dell’UPGRADE .

  • Passi di esecuzione PREPARE

1) Creare una upgrade directory di almeno 7 GB . Posizionarsi nella upgrade directory e da li' lanciare il PREPARE . Dopo questo lancio dare l’exit , sostiture nella bin il nuovo tool di trasporto e rilanciare la procedura .

2) Far chiudere tutte le CR in stato modificabile sul sistema ed aprire il customizing da SCC4 . Lasciarlo aperto per tutto il periodo dell’upgrade

3) Eseguire backup della tabella dei WAGE TYPE (buste paga) come richiesto da molti manuali di upgrade

4) Essere in possesso delle password di DDIC sul client 000 e SYSTEM, fondamentali per le fasi di input iniziali. Da NON modificare durante nessuna fase dell’upgrade. Puo’ accadere che in alcune fasi dell’upgrade sia richiesto il logon con DDIC e compaia un prompt di modifica password. In tal caso re-imputare la stessa.

5) Eseguire TUTTE le fasi della PREPARE, comprese quelle opzionali, e porre particolare attenzione alle fase opzionali di salvataggio delle varianti. Si consiglia per queste fasi di SALVARE tutto il possibile . Per i sistemi BW questa fase e’ fondamentale visto che molte query BW vengono reintrodotte proprio con le fasi finali dell’upgrade.

6) Una delle fasi piu’ delicate e’ la BIND_PATCH. Nelle release piu’ recenti SAP molti plug-in sono gia’ inseriti nei CD standard di SAP e quindi a fronte della dicitura INST/UPG WITH STD CD il SAPup (o R3up) ha GIA’ trovato come procedere per questi plug-in e quindi dare semplicemente OK alla fase (senza flaggare nulla). Se dovesse comparire una dicitura del tipo UNDECIDED in tal caso bisogna scaricare il .SAR relativo da OSS e caricarlo nella EPS/in e procedere all’upgrade mediante SAINT. Non far cancellare il plug-in all’upgrade. Sono ASSOLUTAMENTE critici i PI e gli ST-PI che, se cancellati durante l’upgrade, rendono inconsistente l’upgrade stesso. Leggere le note relative, utilizzare come chiave “upgrade with PI “. A margine delle note principali in genere c’è sempre un rimando.

7) Aggiornare sempre le statistiche del DB ponendo attenzione alla modalita particolare con cui il brconnect ad esempio deve essere lanciato per l’oracle 10

  • Passi dell’upgrade .

1) Eseguire sempre backup OFFLINE dell’istanza e della UPGDIR prima del lancio dell’upgrade.

2) Non modificare alcun input delle fasi di prepare e mettere Db in NOARCHIVE MODE

3) A fronte di un errore non documentato esaminare il log della fase nella upgdir/log e/o tmp . Tentare un rilancio della fase.

4) In caso di errori particolari cercare la fase (nome tecnico, descrizione) su SAPOSS, SDN, Motori di ricerca.

5) Porre molta attenzione all’analisi del LONGPOST

  • Passi post-upgrade

1) Eseguire backup offline al termine dell’upgrade

2) cancellare le tablespace della vecchia release

3) seguire tutti i passi richiesti dal manuale come post-action

4) ricordarsi di reimportare le entries della tabella dei wage types come richiesto dal manuale

Diritti

Due parole sui diritti innati e sul diritto naturale.
 
Se ne è scritta nei secoli un'immensa biblioteca e non sarò certo io a risollevare questa questione in un articolo. Soltanto qualche breve riflessione. Il solo, l'unico diritto innato deriva dall'ente, che esiste e vuole esistere. Nel caso della nostra specie quell'ente si chiama persona, quali che siano i tanti significati che si danno a questa parola. In latino persona significa maschera. Per noi significa individuo, infinitesima parte di una specie, anch'essa individuata tra la moltitudine delle specie. Il diritto dell'individuo persona ad esistere è innato, proviene dalla natura che lo fornisce anche alle altre specie e agli individui che le compongono, ciascuno dei quali, dall'albero al falcone alla persona dotata di mente, vuole, disperatamente vuole esistere e adopera tutti gli strumenti che la natura gli ha fornito per esistere.
Per soddisfare questo diritto "biologico" l'individuo entra necessariamente in conflitto con tutto ciò che lo circonda, con l'obiettivo, per lui primario, di guadagnare e preservare lo spazio di cui ha bisogno. Le radici di due alberi nati troppo vicini tra loro si disputeranno il terreno da cui traggono alimento e la luce che gli serve per la fotosintesi senza la quale appassirebbero. E se lo spazio è troppo ristretto uno dei due finirà col morire diventando uno stecco senza più fronde nè linfe. A maggior ragione ciò si vede nel regno animale ed in quello degli uomini. Ho sentito l'altra sera il nostro telepredicatore nazionale esaltare l'innocenza dei bambini, il loro candore, la loro innata bontà.
L'età dell'oro, insomma. Ma è falso. E' un falso luogo comune. Il bambino è certamente innocente, ha mangiato soltanto i frutti dell'albero della vita e non ancora quelli della conoscenza. Nè sa che cosa sia il peccato. Ma la bontà dei bambini non esiste. La predominante necessità d'ogni bambino è quella di conquistare il suo territorio, attirare su di sè l'attenzione di tutti, vincere tutte le gare, appropriarsi di ciò che desidera. Togliendolo agli altri. Vincendo sugli altri. Sottomettendo gli altri.
Questo è l'istinto primordiale, innato, esclusivo. E spetta a chi li educa insegnare a contenere l'istinto primordiale, a rispettare gli altri, la roba degli altri e addirittura a condividere la propria con gli altri.
 
Questa disponibilità non è affatto innata ma indotta. Dalla cultura, dall'insegnamento degli adulti. E, infine, poichè quell'istinto primordiale ci accompagna fino alla morte, educare e al bisogno limitarlo, spetta alle leggi sulle quali si fonda la Città terrena. I cui fondatori e reggitori si imposero sugli altri con la violenza della scaltrezza o con quella della forza per acquistare il potere ed esercitarlo. Nessuno è stato ed è esente da questo peccato originario, fondato sull'unico diritto innato: la sopravvivenza dell'ente e il dispiegarsi della sua potenza. Il Papa, quando rispolvera il diritto naturale e lo riconduce al Creatore e chiede che le leggi e la gestione della comunità civile siano improntate alle sue indicazioni, non fa che esprimere la volontà di espansione e potenza dell'ente da lui rappresentato. Esprime attraverso comandamenti religiosi la volontà di potenza della sua religione. Non so perchè questo obiettivo sia chiamato oggi "buona laicità". Ma se un confronto ci deve essere tra la Chiesa e il mondo moderno, il dicorso e l'analisi debbono andare molto al di là delle trovate lessicali. La "buona laicità" odora da lontano di teocrazia. Non vorrei che il confronto con l'Islam ci portasse ad imitarlo nel peggio anzichè suggerire agli islamici di scoprire il meglio delle loro e delle nostre Scritture.
 
(Scalfari da Repubblica del 23.10.2005)

Lectio magistralis

SE DIO CI GUARISCE
La "lectio magistralis" del cardinal Martini che riceve oggi una laurea honoris causa
Il Nuovo Testamento racconta i miracoli di Gesù che viene presentato come guaritore
Molte volte nella Bibbia si ricorda il Signore nelle vesti di colui che cura il suo popolo e ne risana le piaghe
Della potente e misteriosa divinità ebraica non si conosce il volto ma l´agire
Di Cristo medico sta scritto: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le malattie
di Carlo Maria Martini
 
Ho un ricordo che risale a dieci anni fa. Sono le parole in ebraico del Salmo 8: «Che cosa è l´uomo perché te ne ricordi / il figlio dell´uomo perché te ne curi? Eppure l´hai fatto poco meno degli angeli, / di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, / tutto hai posto sotto i suoi piedi». Sono le parole che mi suggeriscono qualche riflessione su Dio guaritore. La personalità misteriosa del Dio di Israele viene espressa dalla Bibbia ebraica anzitutto con verbi di azione, poi con aggettivi e infine con sostantivi. I verbi sono quelli con cui vengono indicate le attività fondamentali di Dio a favore del suo popolo e dell´umanità, quelle che lo qualificano in maniera permanente come potente e misterioso, quelle che lo rendono presente, ma in certo senso anche lo nascondono perché non ci viene rivelato il suo volto, ma descritto il suo agire.
I verbi da tenere presente sono molteplici. Qui elenco a modo di esempio i seguenti: Dio crea la terra e l´uomo che in essa abita (Isaia 42,5-6a: «Così dice il Signore Dio, che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alle genti che la abita e l´alito a quanti camminano su di essa»); Dio fa promesse (Genesi 22,16-18: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore. io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la sua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni sulla terra»); Dio libera (Esodo 6,6: «Per questo dì agli Israeliti: Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi»); Dio riscatta e salva («Non temere perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome. Poiché io sono il Signore tuo Dio, Il Santo di Israele, il tuo salvatore»: Isaia 43,1-3); Dio comanda (Esodo 34,11: «Osserva dunque ciò che io oggi ti comando»); Dio guida (Deuteronomio 8,2: «Ricordatevi di tutto il cammino per cui il Signore vi ha guidato in tutti questi quarant´anni nel deserto.»); Dio perdona (Salmo 65,4: «Pesano su di noi le nostre colpe, ma tu perdoni i nostri peccati»).
Tutti questi verbi e molti altri ancora specificano un´azione positiva di Dio verso Israele. Dio è quindi visto non come qualcuno che anzitutto sussiste in sé, nella sua indipendenza e isolamento, ma come qualcuno che opera per altri e che agisce in particolare con interventi precisi nella storia del suo popolo.
Dalla qualità e molteplicità di questi interventi si ricavano anche alcuni aggettivi, che non sono tuttavia per lo più costitutivi e «definitori» della persona, ma sono derivati dalla frequenza delle azioni indicate nei verbi. Abbiamo così la serie di aggettivi proposta in Esodo 34,6-7, in cui siamo soliti fermarci agli attributi di misericordia, dimenticando la seconda parte dell´elenco: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all´ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma che non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione».
I verbi indicano dunque le azioni costanti di Dio e gli aggettivi tentano di sintetizzare quest´azione costante, per quanto è possibile penetrare nel mistero di Dio, che fugge ad ogni definizione.
In terzo luogo vengono i nomi, presentati non come definizioni proprie e accurate ma come metafore del divino, derivati dai verbi e dagli aggettivi. A questi ultimi occorre dunque richiamarsi per comprendere il significato dei nomi.
Si è proposto di dividere i sostantivi in due categorie: quelli che esprimono una metafora di governo e quelli che esprimono metafore di sostegno.
I primi sono assai più importanti. Essi presentano la figura del giudice, del re, del guerriero, del padre. Le metafore di sostegno sono meno frequenti e presentano soprattutto Dio come colui che ha cura, mantiene, nutre, sorregge il 7-8), come giardiniere e vignaiolo, come madre, come pastore e anche come guaritore.
Quest´ultima metafora non è molto presente, ma la si trova in vari contesti nodali. Essa appare per esempio in Deuteronomio 32,39; Osea 6,1; Esodo 15,26. Una tale qualifica di Dio viene esercitata non come distacco, ma con pathos (Geremia 3,22; 8,22).
Dio guarisce in profondità e non alla leggera, come fanno alcuni profeti o sacerdoti («Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: «Bene, Bene» ma bene non va»: Geremia 8,11). Tale azione di Dio suppone un contesto di sincerità e non di menzogna o di reticenza (Salmo 32,3-5: «Tacevo e si logoravano le mie ossa. Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore. Ho detto «Confesserò al Signore le mie colpe» e tu hai rimesso la malizia del mio peccato»).
L´Antico Testamento conosce anche i limiti di questa capacità di guarire, e questo in particolare quando la persona o il popolo resistono all´azione di Dio. Si veda Geremia 51,5-6: «All´improvviso Babilonia è caduta, è stata infranta; alzate la mente su di essa; prendete balsamo per il suo dolore, forse potrà essere guarita.
Abbiamo curato Babilonia, ma non è guarita. Lasciatela e andiamo ciascuno al proprio paese; poiché la sua punizione giunge fino al cielo e si alza fino alle nubi». Viene subito in mente il passo dei vangeli che descrive la visita di Gesù alla sua città di Nazaret: «E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità (Matteo 13,58).
Una caratteristica di Dio guaritore nella Scrittura è che egli non si limita ad alcuni interventi di guarigione, ma pone questa sua azione nel complesso di tutto il suo agire per il popolo, sia direttamente come per mezzo dei suoi intermediari: re, sacerdoti, profeti etc. e delle istituzioni preposte al benessere di Israele, come la Toràh etc. Così anche nel nostro tempo la guarigione non è ipoteca solo di alcuni specializzati, neppure soltanto dei medici, ma si compie nell´insieme di una società che promuove l´uomo e ogni suo aspetto positivo, fino a quello che riguarda la verità e l´autenticità profonda dell´esistenza, a cui è legato anche il senso pieno del nostro benessere.
Nel nuovo Testamento la qualifica di Gesù come medico è certamente più presente, perché Gesù è caratterizzato, soprattutto nella prima parte della sua azione pubblica, come grande guaritore. Perciò i riferimenti alla sua azione sono numerosi. Si veda ad esempio Marco 1,32: «Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni». Si veda anche Matteo 8,16: «Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Isaia, 53,4).
La sua capacità di guarire le ferite è espressa in particolare nella sua passione. La frase più commovente si trova forse nella prima lettera di Pietro, che si richiama alla profezia di Isaia già sopra citata: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché non vivendo più nel peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti» (Isaia 53,5.6; Ezechiele 34,1). Gesù stesso aveva detto, parlando di coloro che criticavano il venire a lui di molti peccatori e pubblicani, che: «non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). In ogni caso anche qui l´azione guaritrice di Gesù si pone come una parte della sua azione totale di rinnovamento della persona ed i riscatto dai suoi peccati.
Tale potenza guaritrice di Gesù è stata lasciata come dono alla sua Chiesa: «questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono. imporranno le loro mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16,17s). Difatti noi vediamo negli Atti degli Apostoli descritte le guarigioni operate da Pietro e da Paolo.
Gesù ha sempre impegnato la sua Chiesa ad essere vicina ai malati in tanti modi. Essa spinge oggi ad essere presenti a coloro che sono nella malattia attraverso l´aiuto anche di molti medici i infermieri, che si prendono cura dei malati con spirito evangelico e che guardano al benessere complessivo della persona.
Nel nostro tempo infatti c´è bisogno non soltanto di fare delle diagnosi precise e di indicare delle medicine efficaci. Occorre prendersi cura del malato nella sua totalità, nelle sue debolezze, nel suo bisogno di essere compreso, sostenuto, aiutato e amato. Così il medico compie un´opera che è parte di un insieme più vasto e che tuttavia si ricollega a quella di Gesù ed esprimere la cura della Chiesa per ogni persona sofferente.
 
(da Repubblica del 13.10.06)

SP-stack su NW2004s

Applicazione SP-stack su NW2004s
1. al download dello "stack" (service.sap.com/sp-stacks) voluto ricordare di scaricare anche il file di definizione xml dello stack (tasto SAVE AS)
2. copiare tutte le patch e il file di definizione xml dello stack nella EPS/in del sistema
3. settare il timeout dell'SDM opportunamente (v. Note 739190 - Timeout when starting or stopping the J2EE engine). E' possibile usare il file sdm_for_patching.bat (vedere lo script sotto) da [Drive]:\usr\sap\[SID]\[INSTANCE]\SDM\program (su WIN)
4. lanciare la JSPM (/usr/sap/[SID]/[Central instance name]/j2ee/JSPM/go)
5. installare come single support package l'aggiornamento della JSPM (normalmente selezionare l'indicatore No NWDI control)
6. rilanciare la JSPM (v. 4.)
7. installare con l'opzione support package stack (normalmente selezionare l'indicatore No NWDI control)
 
link all'help: Jspm patching
 
Troubleshooting
1.
Nel caso in cui il deploy si arresta con messaggio del tipo "Cannot start OS services, SCS instance and J2EE engine..." e' possibile sia un errore al restart dei servizi SAP dovuto alla password dell'utente SAPservice: andare sui servizi (SAP_xx) modificare la password (inserita durante l'installazione) e eseguire il restart. Da MMC fare restart dell'istanza e riprendere con il resume dalla JSPM.
 
2.
L'applicazione del pacchetto KMC-BC va in errore per un problema sull'indice KMC_AP_IHR: applicare la Note 978042 - KMC upgrade fails on Oracle - DROP INDEX 'KMC_AP_IHR'. La cosa puo' anche essere fatta in modo preventivo
 
3.
In qualche caso e' necessario applicare la Note 701654 - Deployment aborts due to wrong J2EE Engine login information (setting della pwd di Administrator dal Config Tool)
 
Allegato (sdm_for_patching.bat)
REM sdm for patching NW2004s
StopServer
sdm jstartup "mode=standalone"
sdm j2eeenginestartstop "timeoutmillisec=7200000"
sdm jstartup "mode=integrated"
StartServer

martedì 6 marzo 2007

These Days

I've been out walking
I don't do too much talking
These days, these days.
These days I seem to think a lot
About the things that I forgot to do
And all the times I had the chance to.

I've stopped my rambling,
I don't do too much gambling
These days, these days.
These days I seem to think about
How all the changes came about my ways
And I wonder if I'll see another highway.

I had a lover,
I don't think I'll risk another
These days, these days.
And if I seem to be afraid
To live the life that I have made in song
It's just that I've been losing so long.
La la la la la, la la.

I've stopped my dreaming,
I won't do too much scheming
These days, these days.
These days I sit on corner stones
And count the time in quarter tones to ten.
Please don't confront me with my failures,
I had not forgotten them.

Nico's song:

venerdì 23 febbraio 2007

TiddlyWiki

TiddlyWiki is a free MicroContent WikiWikiWeb created by JeremyRuston written in HTML, CSS and JavaScript to run on any modern browser without needing any ServerSide logic. It allows anyone to create personal SelfContained hypertext documents that can be posted to a WebServer, sent by email or kept on a USB thumb drive to make a WikiOnAStick. Because it doesn't need to be installed and configured it makes a great GuerillaWiki.

Xclient on Win32

A
download al link: http://www.jcraft.com/weirdx/ (software gratuito basato su Java)
B
installazione
- scompatto nella dir x:\weirdx
- vado su (ad es.) x:\weirdx\weirdx-1.0.32\misc
- da cmd lancio:
java -Dweirdx.displaynum=3 -Dweirdx.jesd=yes -jar weirdx.jar
(deve essere installata la jre)
- sul sistema *nix scrivo:
setenv DISPLAY mio ip address:3.0 xclock
- dovrei visualizzare l'applicazione xclock ...

Nel caso sia installato cygwin e' possibile lanciare un X client come di seguito:
su prompt:
startx
setenv DISPLAY 151.89.3.229:0.0
 
sull'xterm:
xhost +

Sap J2EE engine logging

To view global configuration for logging of Sap J2EE engine (from version 6.40):
 
Log onto the Visual Administrator. First navigate to "Global Configuration -> Server -> Kernel -> LogManager" and check whether the properties
 
- ConsoleLogs_UseSapAPI = YES
- ForceSingleTraceFile = YES
- SingleTraceFile_UnrestrictedLocations = [empty]
 
have their preset values. With these properties, you can remove trace entries from the shared file trace, so that they are included in other files in the file system instead of here (./log/defaultTrace.trc). You should only ever do this for development purposes, never in live systems. Use only the default values for these three properties on all server nodes!
 
Caution: If these parameters are set directly on a server node "N" under "Cluster -> Server [N]-> Kernel -> Log Manager", the global settings are overridden. Therefore ensure that the properties on the affected server node have the values described above.
 
In the next step to modify severity level, navigate to the "Log Configurator" Service -> "Locations". Open the branch you want there and change the trace level in the field "severity" to (for example) DEBUG. Select "Copy Severity to Subtree" and save your entry. You have now set all Java components under that tree to the DEBUG level.
 
If you can isolate the error to particular parts of the J2EE engine set the trace level for the desired subcomponents only. In this way, you avoid unnecessary tracing. Make sure that you reset the trace level of the branch selected to ERROR, propagate this to the subtree, and then save.
 
For every server node N, the trace file appears in the file system under
 
/usr/sap/[SID]/[Instanz]/j2ee/cluster/server[N]/log/defaultTrace.[n].trc
 
The n trace files are written cyclically. You can change their size, number, and location in the file system using the kernel properties of the Log Manager (see above). Once a cycle is written, the files are zipped together and then saved for every server node in the directory
 
/usr/sap/[SID]/[Instanz]/j2ee/cluster/server[N]/log/archive
 
Tips and tricks:
- If the problem is so serious that the Visual Administrator Tool no longer starts or its performance is bad, use the "standalone log viewer" to display the log and trace files.
Start this under:
 
/usr/sap/[SID]/[Instanz]/j2ee/admin/logviewer-standalone/logviewer
 
With the standalone log viewer, you can display trace files (a) locally on the hard disk, (b) using the p4 port (5[Inst.Nr]04, for example, 50004 if your J2EE instance number is 00) or (c) connect to a LogViewer server. Detailed information about this is available in the "Logviewer_Userguide.pdf" in the directory mentioned above.
With the standalone log viewer, you cannot change the severity of a location. The standalone log viewer otherwise has exactly the same functions as the "integrated log viewer" of the Visual Administrator.
 
- The "command line log viewer" (lv.bat or lv.sh) is in the same directory as the standalone log viewer. You can use this tool to convert the default trace into a readable format. For example, call the script for this using
 
lv.bat defaultTrace1.trc -o defaultTrace1.txt -format %d %t %l %s %m
 
Use "lv -help" to help you find additional information about this tool.
 
- IMPORTANT: In addition to the default trace files described above, in the directory
 
/usr/sap/[SID]/[Instanz]/j2ee/cluster/server[N]/log/system
 
trace files are especially reserved for the J2EE Engine especially files (server.[i].log, database.[i].log, security.[i].log, userinterface.[i].log). Important information is often contained in "server.[i].log" if errors occur.
Use the mouse to select both the default trace and the "server.[i].log" in the standalone or integrated log. In the context menu of the right mouse key, select "Merge files and display". The displayed trace contains the information of both traces files (sorted according to date).
 
- The "Location" column of the trace files is very important for the developer analysis. Use "drag and drop" to drag the "Location" column of the log viewer to the third position beside the "time" and "date" columns. You can use the context menu of the right mouse button to select which columns should be displayed (click on the column names).
 
- Very often, you only need to send us individual rows of the trace (such as ERROR messages or stack traces) for an initial analysis. To do this, select the corresponding row(s) in the trace file display of the log viewer and choose "Copy" in the context menu (right mouse button). Send us this information directly using the SAP Service Marketplace. You can convert a trace row message (by double-clicking on the row) using the indicator "Use OSS Copy" directly to a format that is 72 characters wide.
 
Release Status: Released for Customer
Released on: 19.11.2004 13:39:22
Priority: Recommendations/additional info