martedì 11 ottobre 2011

Soliloquio

E' attraverso il “soliloquio”, il colloquio interiore, che il soggetto, dopo essere stato
spettatore e attore di se stesso, esprime un giudizio, ovvero diviene autore, e
quindi responsabile, delle proprie scelte e delle proprie azioni. Shaftesbury
interiorizza così la normatività morale interiorizzando l’autorità.
Comincia, dunque, – scrive Shaftesbury in alcune note intitolate Self – come
legislatore di te stesso (legislator to thyself), stabilisci quell’economia o repubblica
interiore (economy or commonwealth within), secondo quelle leggi che sai essere giuste, e
giura di non trasgredire mai ciò che hai così solennemente decretato e scelto per te stesso.
Taxon tiva ede charakter sauto [Comincia col prescriverti un carattere, Epitteto, Echiridion]
Colui che non è capace di darsi leggi proprie è guidato dall’esterno. Chi non è
in grado di assumere quella distanza dai desideri e dalle passioni necessaria per
riconoscere ciò che è bene per lui, secondo Shaftesbury, non è libero, ma
costretto all’eteronomia. L’agente razionale deve avere un principio interiore di
governo, quello che gli stoici chiamavano hegemonikon. Il colloquio interiore è
una tecnica di controllo delle passioni e dell’immaginazione...
  
Il dialogo è per Shaftesbury non solo un modello di
relazione con l’altro, ma anche del processo di autocoscienza. Sembra sussistere
tra questi due momenti una circolarità virtuosa: il conversare, il confrontarsi con
l’altro, favorisce la presa di distanza da se stessi e quindi il processo di
sdoppiamento del self; d’altra parte un dialogo riuscito presuppone attori che
siano in grado di esercitare quell’autocontrollo che nasce solo dal confronto
interiore, ovvero dal soliloquio. Il colloquio interiore è uno sdoppiamento
dell’io, una capacità di vedere se stessi come in uno specchio.
  
Conoscere se stessi e riuscire a mantenere coerenza nel tempo, ovvero a seguire
le regole che ci si è dati, è quanto Shaftesbury intende con avere “carattere”. La
politeness, come il decorum ciceroniano, è infatti la manifestazione esteriore di
quell’onestà che è data dalla coerenza rispetto al proprio carattere di individuo
razionale, ovvero dalla fedeltà che la persona manifesta nel proprio
comportamento rispetto alla propria natura individuale.
Il carattere non è una maschera ma è come un segno impresso sul viso, un segno
che assicura leggibilità, nella misura in cui i suoi tratti sono chiari e distinti, tali
da non poterlo confondere...

mercoledì 18 maggio 2011

Scacchi

I giocatori, nel grave cantone,
guidano i lenti pezzi. La scacchiera
fino al mattino li incatena all'arduo
riquadro dove s'odian due colori.

Raggiano in esso magici rigori
le forme: torre omerica, leggero
cavallo, armata regina, re estremo,
alfiere obliquo, aggressive pedine.

I giocatori si separeranno,
li ridurrà in polvere il tempo, e il rito
antico troverà nuovi fedeli.

Accesa nell'oriente, questa guerra
ha oggi il mondo per anfiteatro.
Come l'altro, è infinito questo gioco.


Lieve re, sbieco alfiere, irriducibile
donna, pedina astuta, torre eretta,
sparsi sul nero e il bianco del cammino
cercano e danno la battaglia armata.

Non sanno che è la mano destinata
del giocatore a condurre la sorte,
non sanno che un rigore adamantino
governa il loro arbitrio di prigioni.

Ma anche il giocatore è prigioniero
(Omar afferma) di un'altra scacchiera
di nere notti e di bianche giornate.

Dio muove il giocatore, questi il pezzo.
Quale dio dietro Dio la trama ordisce
di tempo e polvere, sogno e agonia?
(Jorge Luis Borges)

martedì 3 maggio 2011

quei giorni perduti a rincorrere il Vento

Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento

un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai

e tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d'amore

fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai

venuto dal sole o da spiagge gelate
perduto in novembre o col vento d'estate

io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai
amore che vieni, amore che vai
io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai
amore che vieni, amore che vai

Fabrizio De Andre'

Si nota facilmente che la prima canzone del primo album e l’ultima traccia dell’ultimo, sono due preghiere. Può sembrare una coincidenza incredibile, ma è certo che la sua produzione inizia con “Preghiera in Gennaio” (Volume I, anno 1966) e si chiude esattamente trent’anni dopo con “Smisurata Preghiera” (Anime Salve, anno 1996). La prima dedicata al suo amico e conterraneo Luigi Tenco; l’altra testamento di chi viaggia in direzione ostinata e contraria. Compreso lui.

Non è questa la sede per scoprire il perché i testi di Fabrizio De André possono essere considerati Poesia. Perché è finito nelle antologie scolastiche, perché usa una elevata quantità di figure retoriche, perché suscita sentimenti e perché non svela subito e non tutto il mistero che c’è dietro le sue parole. Non ci spiega e non ci dà semplicemente un sentimento, ce lo porge ma ce lo lascia scoprire con maestria, ci invita a riflettere...

Esempio sonoro:

 

giovedì 28 aprile 2011

il Vecchio indiano

"I swami credono troppo nelle parole", disse. Era come se avesse letto nei miei pensieri e, prima che io dicessi quanto pero' il Vedanta mi aveva aiutato, aggiunse: "Il Vedanta e' un ottimo punto di partenza, ma troppo intellettuale. La vera conoscenza non viene dai libri, neppure da quelli sacri, ma dall'esperienza. Il miglior modo per capire la realta' e' attraverso i sentimenti, l'intuizione, non attraverso l'intelletto. L'intelletto e' limitato."

Non capivo esattamente dove stava; quale fosse la sua posizione. Non vestiva di arancione come i rinunciatari, non aveva sulla fronte il tocco rosso degli indu'; non c'era niente nel suo aspetto, ne' in quel che aveva detto, che indicasse la sua appartenenza a una particolare fede. Allora?

"Vedanta, buddhismo, induismo, jainismo: l'uno non esclude l'altro", rispose. "Questa e' l'India; una civilta' fatta di varie religioni, tutte pero' fondate su alcune idee di fondo che nessuno, da Buddha in poi, ha mai messo in discussione."  Si fermo'; e, guardandomi come per esser sicuro che capivo e che magari le condividevo, si mise a elencare quelle idee:

"Questo non e' il solo mondo", disse, indicando con un ampio gesto del braccio l'intero orizzonte. "Questo non e' il solo tempo", e punto' il dito contro il mio orologio. "Questa non e' la sola vita", e indico' se stesso, me e tutto quel che c'era attorno. Si fermo' come per farci riflettere. "E questa non e' la sola coscienza". Toccandosi il petto concluse: "Cio' che e' fuori e' anche dentro; e cio' che non e' dentro non e' da nessuna parte". Poi come se volesse alleggerire l'atmosfera, scoppio' in una bella risata e, rivolto a me, aggiunse: "Per questo viaggiare non serve. Se uno non ha niente dentro, non trovera' mai niente fuori. E' inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di se'".

Mi sentii colpito. Aveva ragione. 

lunedì 25 aprile 2011

Autodeterminazione

Roberta De Monticelli risponde a mons. Betori e ribadisce il suo addio alla Chiesa cattolica.

Intervista di Emilio Carnevali

Il giorno dopo la pubblicazione sul Foglio del suo “addio” alla Chiesa cattolica, mons. Betori ha voluto risponderle su Avvenire. L’ex segretario della Cei prende le distanze da una posizione che – a suo avviso – gli viene cucita addosso “senza fondamento”. Afferma che la “libertà della coscienza” non può essere confusa con la “possibilità di fare quel che ci pare”. Mentre la prima è la “sede della nostra scelta” – e come tale non può essere contestata – la seconda è un criterio – che non può essere condiviso – dell’azione. Cosa pensa di questa “difesa” delle proprie tesi operata da mons. Betori?
A me pare incredibile che un termine di radice kantiana, come “autodeterminazione” – una variante di “autonomia”, vale a dire “libera soggezione alla legge morale” – possa essere inteso nel senso della “possibilità” (vale a dire, immagino, “liceità morale”) di fare quello che ci pare. Eppure devo arrendermi all’evidenza: non soltanto Mons. Betori, che comunque ringrazio di essersi impegnato in un’esplicita risposta, ma anche altri, nei loro contributi al dibattito che si è aperto, sembrano affermare questa stessa tesi: libertà di coscienza sì, principio di autodeterminazione no. Occorre dunque procedere con la massima chiarezza, non dando assolutamente niente per scontato, e individuare esattamente il luogo del contrasto. Dunque: una prima risposta, limpida ed efficace nella sua brevità, è quella di Vito Mancuso, che ringrazio per essere teologo cattolico e insieme assolutamente estraneo a quella tecnica dell’ambiguità, dello stirare il senso delle parole fino a far loro dire tutto e il contrario di tutto, che se da un lato smorza i conflitti, dall’altro rende impossibile pensare con chiarezza, ed esercitare già fin nell’uso delle parole quella responsabilità personale (rendersi conto di quello che diciamo, farsi carico di giustificarlo) senza cui non c’è etica. Ecco la risposta di Mancuso: “in che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di autodeterminazione? Che cosa se ne fa un uomo di una coscienza libera a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando su se stesso?”.
Ma se non si snida l’equivoco che sta dietro questa opposizione che anche Mancuso riconosce falsa, tutto resterà com’è: un gioco teatrale a colpi di slogan, parole sequestrate dalle opposte ideologie. Occorre dunque fare un po’ di chiarezza sui fondamenti.
Scrive Mons. Betori: “Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna”. Bene: qui – forse per brevità – l’espressione “libertà di coscienza” è curiosamente usata come sinonimo di “libero arbitrio”, come chiarisce l’ultima frase. Se l’assassino non godesse di libero arbitrio, cioè della capacità di auto-determinarsi consapevolmente a un’azione, in presenza di alternative, non potrebbe esserne responsabile, dunque nemmeno imputabile, come non lo sarebbe una tigre. Dunque per essere imputabile e punibile giuridicamente, oltre che moralmente responsabile, l’assassino deve essere certamente anche in grado di autodeterminarsi, e questo lo dice Mons. Betori e non io! Ma non ho nulla da obiettare. Altra faccenda è se si possa descrivere un ordinario assassinio come un caso di azione conforme alle convinzioni e ai più vagliati sentimenti morali dell’agente. Conforme cioè alla sua coscienza morale – perché di questo io parlavo. Io non lo credo, e mi trovo in questo in buona compagnia con l’intera tradizione platonica, patristica, scolastica e perfino biblica: è in qualche modo un’assenza, non una pienezza di coscienza morale (“cuore indurito”, “cecità”, “non sanno quel che si fanno”) ciò che sta alla base dell’azione moralmente illecita. Purtroppo, perché l’esempio di Mons. Betori sia pertinente, occorre invece credere che non ci sia nessuna differenza essenziale fra l’assassino e la persona che, magari dopo aver vagliato fino all’estremo limite di scrupolo e onestà il dettato della propria coscienza morale (se posso fare un esempio per chiarezza: come nel caso di Mina Welby), fa una sua scelta, conforme a questo dettato. A me la convinzione che tra questi due casi non ci sia alcuna differenza essenziale continua a sembrare un esempio di nichilismo. Ma anche Mons. Betori è in buona compagnia, come ciascuno può verificare andandosi a rileggere la dostoevskiana Leggenda del Grande Inquisitore, dove il “nichilismo pietoso” del protagonista tende la mano agli uomini-bambini: incapaci di distinguere il bene e il male, incapaci di sopportare il peso delle proprie scelte, incapaci di convinzioni valoriali e morali. E rimprovera Cristo: “E’ forse costituita in modo, la natura umana, che...nei momenti dei più tremendi, dei più laceranti e fondamentali quesiti dell’anima, possa rimanersene sola con la libera decisione del cuore?”

Quando però Betori afferma che il “principio di autodeterminazione” non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa in fondo ha ragione…
Se è per questo le cose, in effetti, non sono andate molto meglio con la libertà di coscienza, che il Magistero ecclesiastico riconobbe soltanto in chiusura del Concilio Vaticano II (Dignitatis humanae): e riconobbe allora anche la raggiunta maturità morale dell’uomo, della persona umana in quanto tale. Riconobbe cioè la dolce luce dei Lumi e di Kant, sia pure con un paio di secoli di ritardo e dopo le condanne veementi del 1832 (Gregorio XVI, “Mirari vos”), del 1864 (Pio IX, il Sillabo), o l’incredibile eppur reale scomunica al senatore del Regno Alessandro Manzoni. Ma a me pare che l’antimodernismo odierno sia molto più avvolgente e sinuoso, molto più … avvelenato, mi si perdoni la parola, perché legato a filo doppio con una rinnovata tendenza a sabotare i fondamenti di una cultura della responsabilità personale. Quella che è sempre mancata al nostro Paese, e la cui mancanza produce il disastro civile e morale cui assistiamo quotidianamente. Una tendenza che ha oggi davvero del diabolico, perché – insisto – affonda la sua radice nuova in pieno nichilismo.
Non ho citato a caso il Grande Inquisitore, benché io sia convinta che questa figura dostoevskiana non si riduca affatto al rappresentante per antonomasia della Chiesa cattolica, certamente non amata da Dostoevskij. Il Grande Inquisitore potrebbe ben figurare fra i grandi disincantati cui si rivolge lo Zarathustra di Nietzsche, coloro che “hanno visto tutto”, ma non hanno ancora forse superato la compassione per l’uomo. Non lo dico per divagare con la letteratura, ma per sottolineare la differenza fra l’antimodernismo tradizionale della Chiesa e quello, diciamo, recente, cioè posteriore al (neutralizzato) Concilio Vaticano II. E’ vero, Monsignor Betori parla di una“cultura dell’autodeterminazione che va contro le radici cristiane della nostra cultura”, e in questo modo sottolinea la continuità fra la Chiesa che si è opposta, fino al Concilio Vaticano Secondo, anche alla libertà di coscienza - e quella che è venuta dopo. Ma guardate come il Magistero interpreta oggi quella “libera decisione del cuore” che – possiamo dubitarne? – è condizione necessaria perché un atto abbia valore morale positivo. La interpreta esattamente come fa il Grande Inquisitore. Cioè come fosse la pretesa di creare, con la propria decisione, il bene e il male. Come fosse la pretesa che ciò che io decido sia bene, tale sia anche. Che è esattamente il contrario di ciò che da anni vado dicendo, e questo è pochissimo importante; ma soprattutto – e questo invece è madornale – è il contrario di quello che ci fa intendere il Cristo quando dice “Thalita kumi”, “svegliati fanciulla”. Quando chiede all’anima di risvegliarsi, di vedere e sentire quanto belli possono essere i gigli dei campi o quanto male è dare scandalo a un bambino, e di rabbrividire di questi atti perché sente e vede (“chi ha orecchi per intendere…”), e non perché un altro o la Sharia o una legge dello stato glielo comanda. Ma oltre al Cristo, è il dolce lume della nostra maturità morale, orrendamente tradito dai relativismi, i fideismi tragici, i nichilismi, i decisionismi, le teopolitiche totalitarie del secolo scorso, che ci chiede di fondare la norma morale sulla percezione di valore, su un vederci chiaro del cuore e della mente, e non sull’autorità di un altro, fosse pure il Papa. A meno che non ci si venga a dire – perché davvero le sorprese non hanno fine – che per la bontà di un’azione non conta che il cuore vi assenta come a cosa giusta. Per esempio, se una donna cristiana come Mina Welby, nella sua estrema onestà e sincerità, non avesse sentito come cosa giusta, avendola vagliata in lunghi anni, che a un uomo fosse negato il diritto di rifiutare le cure, sarebbe stato moralmente valido piegarsi all’autorità che le ingiungeva di giudicarla giusta? E’ quello che Betori suggerisce: e io non dovrei considerare nichilistico un simile atteggiamento? E’ ovvio che il cuore può sbagliare, ed è verissimo che il cristianesimo ci insegna in primo luogo a dubitare di noi stessi e della trave nel nostro occhio. Vuol forse dire questo che non dobbiamo poter vagliare con la nostra testa e il nostro cuore qualunque decisione che dobbiamo prendere? E non è, come mi sembrava di aver scritto chiaramente, precisamente perché, anche dove la legge non interviene, si può agire in un modo o nel modo contrario, che agire bene (cioè secondo ciò che è moralmente dovuto) ha un valore morale, e agire santamente, cioè oltre ciò che è moralmente dovuto, può essere sublime? Ma una cosa buona o una sublime può mai farsi per forza, perché è proibito fare altrimenti? Che valore morale avrebbe un’azione fatta non per convinzione ma per rispettare la legge?
Ma torniamo al punto. E’ incredibile come uomini di Chiesa, e fra questi fini commentatori della Bibbia, accettino l’alleanza con un pensiero – come quello di quell’Odo Marquard citato da Ferrara nella sua risposta al mio intervento – per il quale la libertà di coscienza e di autodeterminazione morale equivale a bandire il trascendente dal nostro orizzonte, sostituendo il proprio arbitrio soggettivo a Dio. Questa è una tesi storicamente e filosoficamente falsa. Quando chiedo – con tutta intera la tradizione filosofica e teologica cristiana – di poter vedere le ragioni per le quali un’azione è retta (Anselmo d’Aosta) e l’opposta no, per regolarmi di conseguenza portando tutta intera la responsabilità dei miei eventuali errori, è forse perché voglio mettermi al posto di Dio, “autoprodurre il bene e il male”, come scrive il Patriarca di Venezia (“Il Foglio”, 3 ottobre 2008, articolo di M. Burini)? Ma come si può aver dimenticato che proprio al contrario, per liberare dall’arbitrio del potere e dalla sudditanza servile o infantile la coscienza morale – almeno la coscienza morale (ma anche la grazia di poter prestare ascolto al soffio del divino, per chi l’ha) abbiamo riconosciuto alla coscienza di ogni persona umana adulta, indipendentemente da sesso religione o non religione, il diritto-dovere di chiedersi in ogni istante della vita: “perché”? Questa domanda è la profonda radice comune dell’etica e della logica: e non è nichilismo quello di chi non ci crede capaci ne dell’una né dell’altra? Ma andiamo alla radice delle cose, una volta per tutte!
Oggi il linguaggio delle gerarchie, a partire dallo stesso Papa, fa leva precisamente sulla tesi che “se Dio non c’è tutto è permesso” – che è precisamente la premessa nichilistica del ragionamento del Grande Inquisitore. Il nichilismo, attenzione, non sta affatto nell’ipotesi che Dio non ci sia – ci mancherebbe! Perché se questa ipotesi, o l’ipotesi che ci sia, qualunque cosa significhino, si potessero confermare o escludere in base alla nostra ragione, non si vede cosa ci starebbe a fare la fede, o la sua assenza – in che cosa si distinguerebbero da opinioni più o meno ragionevolmente ben fondate. Il nichilismo almeno virtuale, invece, sta precisamente nell’intero condizionale – che non a caso torna e ritorna in bocca a certi personaggi dostoevskiani, o nietscheani. “Se Dio non c’è tutto è permesso” vuol dire in primo luogo, nella brutale versione ciellina, che ha il vantaggio della sincerità: “se non sei credente (anzi cattolico) sei moralmente incompetente” – sei virtualmente un assassino. Perciò io Chiesa, dato che tu non hai legge morale, chiederò allo stato di istituire norme giuridiche che sopperiscano alla tua incompetenza morale (sto quasi-citando la tesi di don Angelini, “Il Foglio”, 3.10.08, articolo di Burini). E vuol dire dunque, in secondo luogo: “Se Dio non c’è, dio sono io”. E qui il nichilismo si fa improvvisamente chiaro: quella stessa auto-deificazione che veniva imputata all’uomo moderno (e che invece l’uomo moderno ha strenuamente combattuto, fra l’altro, con la distinzione fra diritto, religione e morale e la critica radicale di ogni teopolitica, tanto è vero che fu il costituzionalista di Hitler, Carl Schmitt, e non gli eredi di Locke, a riportare in auge questo concetto) ora la si vuole rendere addirittura fonte di legislazione, radicando lo Stato e le sue leggi in una confessione religiosa. Bisogna dunque fare “come se Dio ci fosse”: non è questa la tesi del Papa? Dio – cito Giuliano Ferrara – che “come nell’antica e medievale teodicea, porta il fardello del male nel mondo, magari attraverso il suo angelo caduto”. Se no, “niente resta per la fede petrina…niente per la chiesa e per il Papa”. In chiaro: nella legge dello Stato bisogna far posto all’istituzione che rappresenta Dio, anche se non c’è. Sto citando un ateo, che continua a definirsi devoto benché sia difficile capire a cosa. Apprezzo il suo gusto per le battaglie di idee. Ma mi perdonino gli amici che mi hanno rimproverato un eccesso di aggressività, mi perdoni Ferrara stesso: questo non è cinismo, oltre che nichilismo? Affermare che la Chiesa debba governare le coscienze in nome di Dio, e governare anche le decisioni delle persone attraverso le leggi dello Stato, precisamente perché Dio non c’è? E se mi dite che la sua non è la posizione della Chiesa, allora perché molti intellettuali cattolici continuano a ribadirla, inclusa la confusione dell’autonomia morale con l’arbitrio soggettivo? E allora, finiamo di andare a fondo di questo concetto. Perché mai se Dio non c’è tutto dovrebbe essere permesso? Affermarlo è affermare che se Dio non c’è, nessuna cosa ha valore, positivo o negativo: non ci sono cose preziose e fragili che dobbiamo proteggere, non ci sono azioni orrende o anche solo gesti volgari che dobbiamo evitare, e così via. Ma come si può affermare una cosa del genere? Solo a patto che l’esistenza dei valori dipenda da quella di Dio. Ma questo è vero solo se è vero che il bene è tale perché Dio lo vuole, e non invece che Dio (se c’è) vuole il bene perché è bene. Infatti, solo dalla prima segue che se Dio non c’è non c’è niente che sia bene o male in sé. Dalla seconda non segue affatto. Dio vuole il bene perché è bene – se c’è. E se non c’è, il bene di un’infanzia felice resta tale, il male di un’infanzia straziata pure.
Fu Platone, nell’Eutifrone, a mostrare che l’alternativa che poi si chiamò “volontaristica” conduce al nichilismo, ed è la rovina dell’etica. La quale è laica o non è, esattamente per questa ragione: che deve essere sottratta all’arbitrio di coloro che parlano in nome di Dio (e ciascuno porta un dio diverso) e all’autorità non criticamente vagliata della tradizione. E concludo qui la mia risposta alla sua domanda sulla Chiesa cattolica e il principio di autodeterminazione. Tutti i Padri greci – nella misura in cui sono platonici; Agostino; Anselmo; Tommaso; il grande gesuita, libertario in metafisica, Luis de Molina; per non parlare evidentemente di filosofi altrettanto universali come Leibniz (che a mutare idea su questo punto cercò di indurre i Luterani e i Calvinisti): tutti questi maestri hanno seguito Platone nel dilemma dell’Eutifrone. Il bene non è tale perché voluto da Dio, ma Dio vuole il bene perché è bene. Solo pochi fra i filosofi del Novecento europeo – Moritz Schlick, Husserl, Scheler e gli altri fenomenologi, e almeno due grandissimi cristiani come Albert Schweitzer e Dietrich Bonhoeffer – seguirono questa via, che è naturalmente la dolce via dei Lumi.
(Devo aggiungere allora che l’”abissale” e irrazionalistico, cioè volontaristico, fideismo che Ferrara mi attribuisce mi è tanto estraneo quanto il suo vero complemento, la teopolitica?) Quasi tutti gli altri presero l’altra via, considerando “piattamente razionalistica” la tesi platonica, e adottarono le forme moderne del volontarismo: decisionismo, relativismo, fideismo. Negarono che ci fosse verità o falsità, accessibile alla sensibilità e alla ragione puramente umane, in materia di valori e norme. Legarono il giudizio di valore non all’attenta coscienza e alla (perfettibile ricerca di) conoscenza delle persone, ma alla nuda, irrazionale volontà di un soggetto – fosse un soggetto politico nell’arena di un conflitto o di una guerra, fosse questo o quel dio o destino dell’Occidente o dell’Oriente. O ultimamente, con l’ultima generazione di teopolitici, fosse una chiesa. Si poteva sperare che, con una così forte tradizione anti-volontaristica alle spalle, la Chiesa cattolica non seguisse questa maggioranza. E invece l’ha fatto, e lo conferma ogni giorno di più. Per questo ho detto che l’antimodernismo di oggi, certamente in continuità con quello di ieri, ha però un fondamento diverso e peggiore. [...]

martedì 22 marzo 2011

Nella torre di Montaigne

Molto tempo fa, un amico mi disse che conosceva un solo modo di leggere Montaigne. Lo leggeva d' estate. Ogni pomeriggio prendeva la sua vecchia edizione in tre volumi: una di quelle edizioni dove il testo non porta il segno delle stratificazioni successive che l' hanno formato; e andava sotto un pino o un tiglio, presso un piccolo fiume. Era il suo locus amoenus, dove anche gli antichi leggevano i loro poeti. Credo che il mio amico avesse torto. Mi sembra che il solo luogo dove si possa leggere Montaigne sia una biblioteca: possibilmente una di quelle grandi biblioteche cinquecentesche o secentesche, che ornano i palazzi aristocratici e le abbazie di tutta Europa. Le librerie salgono verso il soffitto altissimo: intorno gallerie serpeggiano, si elevano, si insinuano, portando ai diversi scaffali; e il legno, levigato e ammorbidito dal tempo, conserva il chiaro e l' oscuro, il compatto e il nodoso degli alberi - olivo e noce, quercia, rovere e olmo -; così che il lettore, seduto col libro in mano, crede di essere avvolto da una foresta lussureggiante, di cui anche i libri fanno parte.
Montaigne aveva la sua biblioteca al terzo piano di una torre. Seduto al tavolo, vedeva con un solo sguardo i libri, schierati in cinque file, pronti a essere sfogliati se l' assaliva un capriccio o un' inquietudine. Ne aveva quasi mille, dei quali ce ne sono giunti settantasei, col suo nome e talvolta le sue annotazioni. Aveva Cesare e Plutarco, Terenzio e Lucrezio, Plotino, Filone e Petrarca, l' Historia del descubrimiento de la India di Lopez de Castaneda, i Dialoghi di amore di Leone Ebreo, le opere di Erasmo, di Poliziano e di Dionigi d' Alicarnasso, il de odoribus di Teofrasto, la Cosmographie universelle del Munster, Il catechismo di Bernardino Ochino. Dai mille libri estrasse cinquantasette sentenze: le fece iscrivere sulle travi del soffitto, in modo che proteggessero o deridessero dall' alto il suo lavoro di commentatore. "Tutte queste cose, con il cielo e la terra e il mare, non sono nulla a paragone della somma totale di tutte le somme" (Lucrezio). "Non comprendo" (Sesto Empirico). "Dio non vuole che altri sappia al di fuori di lui" (Erodoto). "Tutte le cose sono troppo difficili perché l' uomo possa comprenderle" (Ecclesiaste). "La vita più dolce è non pensare a niente" (Sofocle). Undici sentenze appartenevano all' Ecclesiaste, il libro prediletto dagli scettici mistici, o dai mistici scettici - la razza più amabile della terra -; ma la maggior parte di esse sono false o manipolate, perché l' instancabile mistificatore amava talmente l' Ecclesiaste da reinventarlo a suo modo. La biblioteca aveva tre grandi finestre, "di ampia e libera prospettiva", dalle quali entravano i soffi dei venti, i raggi di sole, i riflessi delle nuvole, gli odori degli alberi, e, due volte al giorno, il suono dell' Ave Maria. Se si affacciava alla finestra, vedeva il castello, la corte, il pollaio dove le galline, le oche e le anatre si preoccupavano di nutrire la sua esistenza; e più lontano le colline del Périgord, dove lo sguardo si perdeva quasi all' infinito. Montaigne scrisse molte menzogne: forse la parola non è esatta; riempì il suo libro di mistificazioni, giochi ironici e autoironici, piccole scene teatrali recitate insieme da lui e dal lettore immaginario, che abita gli Essais come una presenza segreta. Certo la più grande, fra queste menzogne o mistificazioni, fu quella di non possedere memoria: "non ne riconosco in me quasi traccia alcuna, e penso che non ve ne sia al mondo un' altra tanto straordinaria per la sua debolezza". Dicendo così, voleva difendere la naturalezza, la semplicità, la franchezza, la fluidità, la assoluta presenza del proprio spirito, che secondo lui gli eroi della memoria non possedevano. Ma, in realtà, la memoria di Montaigne è una delle grandissime memorie dell' Occidente: come quelle di Dante, di Petrarca, di Shakespeare e di Goethe. Conservava in sé quasi tutta la civiltà classica, e parte di quella cristiana. Bastava una parola, un cenno, un' allusione. E subito tutte le parole e le immagini, tutta quella foresta-biblioteca fiammeggiante che portava nel suo spirito, risuscitavano dal silenzio offrendosi alla sua penna, come un immenso concerto di suoni e di voci umane. Non era una memoria barbarica, come affermò Emilio Cecchi. Non aveva nulla in comune con quella dei grandi artigiani ottoniani, che ad Aquisgrana ornavano il pulpito d' oro con gli avori, i cristalli e gli scacchi dell' Egitto e di Bisanzio - tesori rapinati e ostentati sontuosamente davanti al pubblico imperiale e feudale. Montaigne sentiva un vuoto o una lacuna dentro di sé, che dovevano essere colmati con la ricchezza degli altri: gli sembrava che il suo terreno non fosse capace di produrre fiori troppo splendidi. Se leggeva, piluccava ora un acino ora un altro: ora tre versi ora una frase; e specie quando frequentava il meraviglioso Plutarco, come poteva fare a meno di rubargli una coscia, o un' ala?
La citazione splendeva come una gemma; e insieme creava un sottofondo ricco e delicato, lontano e ardito, dietro il suo discorso in primo piano. Alla fine, ciò che era estraneo - ma nulla è mai estraneo nella letteratura - veniva assimilato: la frase altrui entrava nella sua, e la sua nella altrui: la tarsia si insinuava nella tarsia vicina; Lucrezio e Seneca diventavano la sua carne e il suo sangue. "Le api saccheggiano fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro; non è più timo né maggiorana". Forse, dai tempi delle Confessioni di Agostino nessuno scrittore aveva posseduto un dono così superbo per trasformare la ricchezza dei libri nel ritmo nervoso e succoso della sua prosa. Non ha molta importanza se leggiamo Montaigne sotto il pino dell' estate, o nella biblioteca dell' inverno. In ogni caso, forse è venuto per tutti i lettori il momento di leggere uno scrittore che ci parla da un tempo tanto lontano dal nostro, ma con parole così incredibilmente fresche e leggere come se le avessimo sognate la mattina, prima dell' alba. Tutto è pronto. La traduzione di Fausta Garavini, appena ristampata da Adelphi (due volumi, pagg. XXXV-1596, lire 39.000), è ammirevole per precisione, sottigliezza, dono stilistico. Se qualcuno desidera cimentarsi col francese di Montaigne (non è difficile) può scegliere tra l' edizione, più ampiamente commentata, a cura di Pierre Villey e V.L. Saulnier (Presses Universitaires de France); e quella, con note più rapide, a cura di Albert Thibaudet e Maurice Rat (Oeuvres complètes, Gallimard, La Pléiade). Se poi la passione per Montaigne - una passione incontenibile: per un anno, il lettore, sente, pensa, parla, scherza come Montaigne - dovesse diventare più grave, vorrei consigliare almeno due libri. Quello di Hugo Friedrich (Gallimard) è il più bello che sia mai stato scritto su Montaigne, e porta con asciuttezza robusta i suoi quarantatre anni. Il secondo è uscito da pochi mesi. L' ha scritto Fausta Garavini (Mostri e chimere, Il Mulino, p. 328 lire 34.000); e con rapide incursioni ci porta in radure o boscaglie della grande foresta shakespeariana, che avvolge ancora la Torre dove Montaigne visse, immaginò di vivere, lesse, sognò, fantasticò, scrisse, corresse, ampliò ciò che aveva scritto. Nulla vorrei conoscere meglio di ciò che sta dietro le spalle degli Essais, come una presenza muta e sconosciuta. In un passo del secondo volume, Montaigne afferma che essi sono nati da "un umore malinconico, prodotto dalla tristezza della solitudine". Qualche anno fa, in uno dei suoi libri più belli, Giovanni Macchia parlò di "serena disperazione": "come può cogliere un uomo condannato a viaggiare, che sa di non dover mai approdare a nessuna terra". Ma quella disperazione fu - sempre - così serena? E la melanconia nacque soltanto dalla solitudine e dalla reclusione nella Torre? Non ci fu altro - di più inquieto, furioso e acuto? In alcuni passi degli Essais, pare di avvertire l' eco di un fallimento o di una sconfitta metafisica.
"Sarebbe far torto alla bontà divina - aveva scritto nell' Apologia di Raymond Sebond -, se l' universo non cooperasse con la nostra fede. Il cielo, la terra, gli elementi, il nostro corpo e la nostra anima, tutte le cose vi cospirano... Questo mondo è un tempio santissimo, nel quale l' uomo è introdotto per contemplarvi delle statue, non foggiate da mano mortale, ma quelle che il pensiero divino ha fatto sensibili: il Sole, le stelle, le acque e la terra, perché siano per noi immagine di quelle intellegibili". "Tutto quello che è sotto il cielo, è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte". Il suono di queste frasi è quello delle grandi architetture filosofiche rinascimentali. L' universo è una meravigliosa catena di relazioni e di rapporti, che dalle stelle scende alle piante, alle pietre e all' uomo. Forse Montaigne immaginò di descrivere questo "tempio santissimo", raccontando le "statue", le leggi, i fenomeni, gli eventi naturali ed umani; e il miracoloso rapporto che lega l' Essere e l' apparenza. Se questo è vero, anche lui credette per un istante nell' Harmonia mundi, e in una Teodicea. Se è mai esistito, questo tentativo di spiegare e di glorificare l' Armonia del mondo si dissolse come un miserabile castello di carte, al soffio del primo e fragile vento. Fin dalle prime righe, gli Essais proclamano che non c' è nulla di più "vano, vario e ondeggiante" dell' uomo e del mondo. Non esiste alcuna legge di coscienza, di natura, o di ragione. Tutto muta, cambia, fluttua, si perde, scompare, come l' acqua e il vento. Il mondo è dominato dal caso. Forse è soltanto un sogno: "noi vegliamo dormendo, e vegliando dormiamo". Quanto all' uomo, quest' essere cavo, vuoto, privo di bellezza, salute, saggezza e di tutte le qualità essenziali, i suoi sensi lo ingannano miseramente. La ragione - una specie di "tintura" - è incapace di cogliere qualsiasi verità, non solo intorno a Dio ma intorno al minimo oggetto. E poi l' uomo non ha volontà né forza. Non ha persona - perché è un coacervo miserabile di frammenti. Non è che opinione - la quale varia secondo i popoli e i climi, e di uomo in uomo, e nello stesso uomo di minuto in minuto. E se infine, per cercare di cogliere qualcosa di stabile e solido, Montaigne si volge verso sé stesso, cosa trova? Nient' altro, ancora una volta, che vanità, varietà, movimento, e mistero. "Io che mi spio più da vicino, che ho gli occhi incessantemente tesi su me stesso, ...a malapena oserei dire la vanità e la debolezza che trovo in me. Ho il piede così instabile e malsicuro, lo trovo così facile a crollare e così pronto a vacillare, e la mia vista così sregolata, che a digiuno mi sento tutt' altro che dopo il pasto; se la salute mi ride e la serenità di una bella giornata, eccomi amabile: se ho un callo che mi fa dolere l' alluce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile... Ora mi va di far tutto, ora niente; quello che mi fa piacere in questo momento, talvolta mi sarà penoso". Nemmeno Pascal, che leggendo Montaigne vedeva "con gioia la superba ragione così invincibilmente offesa colle proprie armi", fu così pungente. Tra tutti i nemici del genere umano - Cioran assicura che sono i suoi soli amici -, nessuno ha mai infangato la nostra presunzione, nessuno ha mai insultato la nostra figura con tale furia, piacere, estro, divertimento, ferocia, malignità, tenacia, bizzaria; e, nel fondo, con una inconcepibile dolcezza.
Molto al di sopra delle vanità, sta il Dio remotissimo, nel quale Montaigne crede: un Dio "sconosciuto", come quello che Paolo trovò ad Atene, senza nome, senza ragione né intelligenza, che le nostre congetture ed analogie non possono comprendere - molto simile al "Dio oscuro" dei mistici. Ci sono dei brani, negli Essais, dove l' uomo, il cieco-nato che vive nella notte, attende la grazia: "l' uomo nudo e vuoto, consapevole della propria naturale debolezza, pronto a ricevere dall' alto qualche forza estranea, sprovvisto di scienze umane e tanto più atto ad accogliere in sé quella divina, incline ad annullare il proprio giudizio per fare un posto maggiore alla fede...: un foglio bianco preparato a ricevere dal dito di Dio quelle forme che gli piacerà imprimervi". A tratti sembra che la mite e fredda grazia divina stia per scendere sul foglio bianco dell' uomo, colmandolo colla sua luce, disegnandolo con le sue forme, e sollevandolo "eccezionalmente" nel regno dei cieli. Era il momento atteso dagli spiriti religiosi che leggevano Montaigne verso la fine del sedicesimo secolo - come san Francesco di Sales. Ma, negli Essais, la grazia divina non scese mai sul foglio bianco dell' uomo. Non vi disegnò nulla. Dio rimase nell' alto dei cieli, senza nomi e mani, insondabile nella sua essenza. Montaigne non diventò un mistico. Non saprei dire cosa diventò: certo non un filosofo scettico; o nessuna delle molte etichette che gli storici della filosofia amano incollare sulla fronte del più fuggevole degli scrittori. In una specie di totale capovolgimento, tutte le parole di Montaigne cambiano segno: ora sono una cosa e insieme il loro contrario. Così, mentre deride la vanità, la varietà e la mutevolezza, allo stesso tempo le ama come fossero l' essenza preziosa dell' universo. Ama la natura che gioca. Ama la fantasia, il capriccio, la sorpresa, l' inventività del caso, che schernisce i nostri programmi e intenzioni. Ama il vento: "più saggiamente di noi, si compiace di mormorare, di agitarsi, e si contenta delle funzioni sue proprie, senza desiderare la stabilità, la solidità, qualità non sue". Ama l' oscillazione. Ama tutto ciò che è ombra. Ama tutto ciò che è mescolato, confuso, rappezzato, screziato: - la voluttà, che geme e muore d' angoscia. Ama l' incerto; e usa volentieri espressioni come "forse", "in certo modo", "si dice", "io penso". Ama le fugaci, incantevoli, dorate apparenze - che ci portano lontano da ogni certezza. Quanto all' uomo, attrae Montaigne per le stesse ragioni per cui egli l' aveva schernito.
L' uomo è discontinuo, frammentario, composto di pezzetti, ognuno dei quali va per conto suo: cambia ogni istante; non conosce la verità, ma la insegue e la caccia insaziabilmente. "Nessun intelletto generoso si ferma su se stesso: aspira sempre ad altro e va al di là delle proprie forze; ha slanci che oltrepassano le sue possibilità; se non avanza e non si affretta e non indietreggia e non si urta, è vivo soltanto a metà; le sue indagini sono senza limite, e senza forme; il suo alimento è stupore, caccia, ambiguità". Alle volte, non c' è nulla di più bello della futile opinione, - che cambia "come le pietre le quali assumono un colore più brillante o più opaco secondo la foglia del castone su cui sono poste". Davanti a questo incontenibile elogio del vento e dell' acqua e della screziatura, come non immaginare che il fantastico libro scritto nella Torre rappresenti il momento taoista dell' Occidente? Montaigne non sarebbe fedele a se stesso, se non ci proponesse un altro capovolgimento. Finora ci aveva detto che non c' è natura, ma solo opinione e abitudine. Ora, tanto più intensamente quanto più si avvicina alla vecchiaia, esalta la Natura: lei, la Madre perennemente stabile e diversa, la Madre enigmatica e misteriosa, la Madre benigna, la Madre saggia e dolce che ci guida felicemente e sicuramente, che ci consola, soccorre e ci tende la mano. "Non c' è niente di inutile nella natura; neppure l' inutilità stessa; niente si è introdotto in questo universo, che non vi occupi un posto opportuno". Noi la portiamo dentro noi stessi; e se la seguiamo secondo il "precetto antico", se non ci lasciamo trascinare dalla scienza, dall' opinione e dall' artificio, non potremo sbagliare, e saremo felici. "Felicemente perché naturalmente". Negli Essais, la Madre Natura si incarna nella figura di Socrate. Con una passione che via via si accresce, Montaigne adora Socrate. Non gli importa nulla delle sue idee metafisiche, che getta nell' immenso cesto dei rifiuti dove sono raccolte le follie della mente umana.
Adora Socrate perché non sta mai a casa: perché va in giro, ozia, vagabonda, interroga, chiacchiera, insaziabilmente curioso degli eventi più futili e dei pensieri più sublimi. Lo adora perché è un dilettante: non possiede nessuna conoscenza e professione precisa: tutto quello che è scolastico lo annoia; tutto quello che è pesante, calcolato, convenzionale, suscita il suo sarcasmo. Lo adora perché è un personaggio da commedia: parla di asini da soma, di fabbri, di calzolai e di conciatori; parodizza gli stili; e, appena compare, la vita quotidiana si affaccia sulla pagina scritta. Gli piace la sua incantevole naturalezza, la bonomia, la semplicità, il furore dionisiaco, la incontentibile conversazione - sfacciata e vana come la sua. Anche Montaigne è un dilettante: il più grande tra i dilettanti moderni; e si prende gioco di sé, affermando che le sue sono "le fantasticherie di un uomo che delle scienze ha assaggiato solo la crosta esteriore, nella sua infanzia, e ne ha ritenuto soltanto un' immagine generica e informe". "Non c' è ragazzo che non possa dirsi più sapiente di me".
Nella grande biblioteca, tra un soffio di vento e il gracidio delle oche, sotto la ironica protezione delle sue sentenze, egli non fa piani né progetti. "Ora sfoglio un libro, ora un altro, senza ordine e senza disegno, come capita; ora fantastico, ora annoto e detto, passeggiando...". Sa tutto, ma quando scrive la sua penna riesce a dimenticare (la dimenticanza è madre della memoria) quello che sa. "Fra le cento membra e le cento facce che ha ogni cosa, io ne prendo una, ora per lambirla soltanto, ora per sfiorarla, ora per penetrarla fino all' osso. E vi do un colpo, non più ampiamente ma più profondamente che posso. Seminando qui una parola, là un' altra, scampoli staccati della loro pezza, slegati, senza disegno e senza promessa, non sono tenuto a trattare la questione sino in fondo...". Ma, se il dilettante non possiede la conoscenza limitata e totale dello specialista, ha un immenso vantaggio su qualsiasi specialista. Ha un' esperienza diretta di ogni cosa di cui parla. Entra dentro di essa, scende nel fiume della fluidità universale: prende la cosa singola, la gusta, la assapora, la palpa con tutta la sensualità della mente e del corpo. La sua fantasia è così grande che può assaporare perfino la propria morte, oltrepassando i limiti dell' esperienza. Così il suo libro di essais (come suggerisce l' uso linguistico del tempo) è un "esercizio", un "preludio", una "prova", un "tentativo", una "tentazione", "un nutrimento", un "gustare", un "verificare", un "pesare", un "computare"; e, come è naturale, un "pericolo" e un "rischio". Con la ironica nonchalance del dilettante, Montaigne finge di sottovalutare il proprio libro. Ciò che conta - ripete - è la mia vita. "Il mio mestiere e la mia arte è vivere": "Ho dedicato tutti i miei sforzi a formare la mia vita. Ecco il mio mestiere e la mia opera. Io sono facitore di libri meno di ogni altra cosa". Montaigne non ha mai scritto nulla di più elusivo. Se qualcuno, al mondo, fu facitore di libri, questi fu Montaigne; e in modo assoluto e quasi commovente. Ci sono grandi poeti che scrivono un libro, e lasciano che la loro esistenza corra per la sua strada, verso la salvezza o la perdizione, come se non li riguardasse. Mentre scriveva gli Essais, il libro faceva, formava, costruiva la sua vita: si distaccava da lui; rifletteva su di lui, fantasticava su di lui, pensando cose che egli non aveva mai immaginato: ritoccava un tratto, ne cambiava un altro; e così finiva per trasformare la sua vita. Da quando entrò nella Torre, prigioniero della Torre e degli Essais, Montaigne non conobbe altra vita di quella che essi vivevano, crescendo davanti ai suoi occhi, mutando e spostandosi, come una creatura vivente e estranea. Ma, proprio per questo, si conosceva benissimo: di rado uno scrittore ha definito con tanta precisione (meno quando voleva trarci in inganno) chi era e cosa era il suo libro. Gli Essais stavano davanti ai suoi occhi come uno specchio implacabile: non doveva far altro che leggervi, e raccontarci ciò che vi aveva visto. L' uomo che ha scritto gli Essais (o che è stato scritto dagli Essais) vive sotto un doppio segno astrologico: "ho l' indole - dice - fra il gioviale e il malinconico". Questa combinazione tra due segni astrologici risveglia, in lui, una fantasia e una immaginazione immense: un desiderio di tutte le esperienze possibili (sia pure condotte dentro il libro); l' amore di ogni cosa visibile.
Nessuno è più immoderato di quest' uomo della misura. Attratto da tutte le cose che non gli somigliano, vuole mutare, cambiare, fluttuare: ama il viaggio come la condizione naturale dell' uomo: "sì, lo confesso, io non vedo nulla, neppure in sogno e col desiderio, su cui possa fermarmi; solo la varietà mi appaga, e il possesso della diversità, se pure qualcosa mi appaga"; e con voluttà accetta tutte le cose, diventa un altro, si piega a ciò che gli propone la vita. A volte, sembra freddo, duro, insensibile - come tutti i curiosi, costretti a chiudersi nel gelo, per non disperdersi nelle esperienze. Di solito, riesce a stabilire un equilibrio mirabile tra estroversione e introversione, e a fonderle l' una con l' altra. Se viaggia, lo fa per concentrarsi. Mentre si dissipa, si ritrova. Mentre si raggiunge e si conquista, si perde. Scrive per vivere, e vive per scrivere. Se pensa alla morte, e esce da sé colla mente volando nei cieli dell' altro mondo, lo fa per vivere meglio qui, in mezzo a noi. Questo è il segreto di Montaigne: il segreto, come si dice, del suo equilibrio. Tutte le sue fantasie, gli eccessi, i furori, le inquietudini, i terrori, i mostri, le chimere, le follie hanno bisogno di un limite, e si rinchiudono in un mondo moderato e temperato. "Si ha ragione di porre allo spirito umano barriere più strette possibili. Nello studio, come nel resto, bisogna contare e regolare i suoi passi, bisogna assegnargli ad arte i limiti della sua caccia". Come questo spirito smisurato sia riuscito a trovare la propria misura: come quest' uomo liberissimo abbia saputo legarsi con cento catene, - è un miracolo, che nessuno ha forse mai spiegato. O c'è una sola spiegazione. Registrando tutte le fughe e le ossessioni, spostando e variando di continuo la mira della sua caccia, il libro ha costruito il mondo mobile e chiuso, dove Montaigne ha vissuto. Non è la vetta di una montagna. E' una "bella pianura fertile e fiorente", dove arriviamo "per strade ombrose, erbose e dolcemente fiorite, agevolmente e per un pendio facile e liscio", e dalla quale possiamo vedere tutte le cose al di sotto di noi. Quale aria vi respiriamo: quale soavità, quale gioia, quale armonia, quale sovrana naturalezza, quale amabilità, quale sorridente liquidità, quale perenne distensione di tutte le cose tese e aggrovigliate.
C' è un territorio, in questa pianura, che esce completamente dall' equilibrio nel quale Montaigne ha chiuso sé stesso. E' il fuoco, il furore, il delirio, l' invasamento, l' ispirazione divina, che egli deriva dalla lettura dei testi platonici. Non aveva simpatia per la metafisica platonica: ma nessun libro lo segnò mai più profondamentedel Simposio e del Fedro. Il mirabile saggio sull' amicizia risuona dei loro echi. Il poeta che Montaigne descrive in un altro saggio è l' ispirato platonico: "assiso sul tripode delle Muse, versa di furia tutto quello che gli viene in bocca, come la cannella d' una fontana, senza ruminarlo e pesarlo, e gli sfuggono cose di diverso colore, di sostanza contraria e in un flusso inuguale. E' il linguaggio originario degli dei". Con la stessa furia Montaigne parla degli effetti della poesia, che rapisce e devasta il nostro giudizio; e dell' erompere improvviso dell' ispirazione dentro di lui, quando scrive "le sue fantasticherie più folli e profonde". Malgrado il suo equilibrio, Montaigne sa che il fuoco della poesia e della follia, che egli porta dentro di sé come il più raro e prezioso dei doni, può trascinarlo in chissà quale abisso. Con passione e terrore, guarda in questo abisso. Quando, a Ferrara, vede Torquato Tasso rinchiuso nell' Ospedale di sant' Anna, e sopravvissuto a se stesso: quando contempla in lui uno di quei duttili e robusti spiriti malinconici portati invincibilmente alla follia, gli sembra di vedere uno spirito fraterno, quasi la sua ombra. "Che salto ha fatto ora, per la propria concentrazione e il proprio fervore, un uomo tra i più penetranti e ingegnosi?... Non lo deve a quella sua mortale vivacità? A quella chiarezza che l' ha accecato? A quella esatta e tesa comprensione della ragione che gli ha fatto perdere la ragione... A quella sua rara attitudine agli esercizi dell' anima, che l' ha ridotto senz' esercizio e senz' anima?".
Gli Essais sono un mistero ancora più grande del suo autore. Montaigne conosce quanto il libro sia "nuovo" e "stravagante" e "fantastico" - e non certo perché parli di lui: tanti altri l' avevano fatto. Era insieme un' enciclopedia, come quelle che piacevano agli spiriti della tarda antichità e del Medioevo: una raccolta di casi possibili e impossibili: il "succo" di tutti i libri che Montaigne aveva letto: una discussione sui massimi problemi del cosmo, dell' uomo e della storia - e poi, inestricabilmente unito, il ritratto di un uomo e di un' esperienza. Quell' uomo è lui; e non c' è niente che diverta e rallegri e stupisca tanto Montaigne, che prova per se stesso una inesauribile simpatia e meraviglia. Il suo io muta ogni istante: il suo pensiero si cerca e si esprime mentre si cerca, via via che un' espressione gli sembra "momentaneamente definitiva"; e intanto gioca con quell' io-libro, lo ostenta e si ostenta, lo esibisce e si esibisce, lo denigra e si denigra, trascorrendo con piacere infinito dagli Essais a se stesso. La materia degli Essais, non sono le idee - Montaigne non si è mai sognato di compiere un atto così inutile come pensa-re -: ma "fantasticherie", "chimere", "mostri fantastici", ossessioni, capricci che, nelle sue mani, assumono il carattere di immagini figurative ("grotteschi" diceva ) o di linee bizzarre e tortuose o di semplici scariche di energia. Non c' è una sola linea retta, come se una maledizione le avesse cacciate dal mondo. Tutto è piega, angolo a gomito, ghirigoro, curva, ricciolo, groviglio: tutto è frammento; tutto è salto di tema, alternanza, divagazione, contraddizione, improvviso e folgorante scorcio analogico. Per molto tempo Montaigne cercò un modello con cui giustificare la sua impresa, fino a quando, negli ultimi anni di vita, comprese che l' esempio dei suoi capricci e delle sue screziature erano i Dialoghi di Platone e qualche testo minore di Plutarco. "Essi non temono queste sfumature, e hanno una grazia meravigliosa nel lasciarsi così portare dal vento... Mi piace questa andatura poetica, a salti e a sgambetti. E' un' arte, come dice Platone, leggera, volubile, divina... Oh Dio, in queste vivaci scappate, in questa variazione, quanta bellezza c' è; e tanto più quando tende al trascurato e al fortuito!... Bisogna avere un po' di follia...". Presto trovò molti nomi per il suo libro. Gli Essais diventarono una rapsodia, o una passeggiata, o una fricassea, o un pot-pourri, o un intarsio. Erano, soprattutto, una variazione; e nell' arte musicale della variazione Montaigne fu maestro a molti secoli di letteratura. Con la solita chiaroveggenza, Montaigne definisce il suo stile: "Il linguaggio che mi piace, è un linguaggio semplice e spontaneo, tale sulla carta quale sulle labbra; un linguaggio succoso e nervoso, breve e serrato, non tanto quale sulle labbra; un linguaggio succoso e nervoso, breve e serrato, non tanto delicato e leccato quanto veemente e brusco... piuttosto difficile che noioso, sregolato, scucito e ardito...". Ci colpisce sempre la sovrana rapidità del movimento: la velocità dei rapporti analogici e intellettuali: la sistematica trascrizione fisica dei dati spirituali, che trasforma l' attività interiore in un' attività visibile, che avviene in uno spazio; l' alternanza di concentrazione e di compiaciuta lentezza, di frasi epigrammatiche e di periodi enormi e sbilenchi. Via via che gli Essais crescono, assomigliano sempre più a una conversazione. Montaigne si diverte a imitare il timbro di una voce, che parla, chiacchiera, commenta, divaga, colorisce, recita, si esibisce, perde tempo, sbiadisce, trionfa. L' ascoltatore è insieme vicino e lontano: è Montaigne, che ascolta parlare il suo libro; siamo noi che, dopo quattro secoli, continuiamo a dividere con lui una conversazione interminabile. Gli Essais sono uno dei grandi libri della vecchiaia, anche se forse la vecchiaia non portò a Montaigne la saggezza che egli sognava e disprezzava. Qua e là, cogliamo accenti quasi disperati: "Io sento che nonostante tutte le mie difese la vecchiaia guadagna via via terreno su di me. Resisto finché posso. Ma non so alla fine dove mi condurrà. In ogni caso, sono contento che si sappia di dove sarò caduto". "Il mio mondo è finito, la mia forma è svuotata; io appartengo tutto al passato... Il tempo mi abbandona: senza di esso nulla si possiede". Ma non invecchiava mal volentieri. Gli sembrava di essere più libero dalle maschere con le quali si era nascosto il viso; e di poter diventare indiscreto e quasi impudente. Se tutta la sua vita era stata una fluttuazione, ora fuggiva da sé, si sottraeva a se stesso, con un ardire che nulla frenava. Aveva avuto molti modelli: aveva amato Catone, Cesare ed Epaminonda; ma il suo unico modello, mentre si avvicinava alla morte, era Socrate, con gli occhi sporgenti e ubiqui da toro, e il suo furor dionisiaco. Una specie di continua ebbrezza, una sfacciata esibizione percorre gli ultimi saggi. "Soprattutto ora che vedo la mia vita così breve nel tempo, voglio aumentarla nel peso; voglio frenare la sua velocità nella fuga con la mia prontezza nell' afferrarla, e con il vigore dell' uso compensare la fretta del suo scorrere; a misura che il possesso della vita è più breve, tanto più profondo e pieno devo renderlo".
Intorno il cielo era calmo. Nessun desiderio, timore o dubbio o difficoltà turbavano l' aria. Nessuna speranza volteggiava davanti ai suoi occhi. Non aveva che presente: nudo presente; e lui rallentava il tempo, dava ad ogni minuto il suo pieno significato, "studiava, assaporava e ruminava" ogni esperienza. Sebbene gli studiosi dubitino che Montaigne abbia mai letto le Confessioni di Agostino, mi sembra impossibile che ignorasse un testo allora così amato, e prediletto da coloro che amava. Certo la costruzione degli Essais sembra la replica e il rovesciamento, probabilmente involontari, del libro "gocciolante di lacrime", che era così caro a Petrarca. Le Confessioni cominciano col raccontare la vana vita di un uomo, concludendo nei misteri di Dio, del tempo e della creazione. A pezzi, a bocconi, gli Essais cominciano a parlare dei supremi problemi dell' universo, chi è l' uomo e cosa è la natura e se vi è una legge e cos' è la presenza di Dio: vi mescolano la storia del mondo, da Roma ai cannibals, e la vita e l' esperienza di un uomo, che ha rimuginato queste chimere. Verso la fine, tutto si rovescia, si restringe, si concentra, come in un imbuto. Il soggetto diventa uno solo: Michel de Montaigne: anzi il suo corpo: quando dorme, quando fa colazione, se suda o beve vino puro, quanto lo faccia soffrire il mal della pietra, di che colore è la sua orina, quando va a cavallo, e che gli piacciono i meloni e lesalse e grattarsi, mentre non gli piace la carne dura. In questo rovesciamento a forma di imbuto, c' è un grandioso gusto beffardo. "Non c' è altro che questo - pare dire Montaigne. - Tutto qui. L' universo, coi suoi dei e le sue stelle e i suoi pianeti dalla corsa prescritta, si è ridotto al corpo di un cinquantacinquenne, che soffre il mal della pietra". In una pagina famosa del Port-Royal, Sainte-Beuve raccontò i funerali immaginari di Montaigne. "Montaigne è morto: posano il suo libro sulla sua bara". Dietro la bara c' è mademoiselle Gournay, la "figlia per alleanza"; e poi Bayle e Naudé, "gli scettici ufficiali". Poi, a gruppi o in file, si snodano tutti gli altri: tutti coloro che da Montaigne trassero ispirazione per un libro di massime, di saggi, di caratteri, di confessioni, per commedie e lettere e romanzi e racconti, o soltanto per dar estro allo stile. Ecco La Rochefoucauld, La Fontaine, Madame de Sévigné, Molière, Saint-E' vremond, La Bruyère, Fontenelle, Marivaux, Montesquieu, Voltaire e Rousseau... In un angolo sta Pascal, il doppio-nemico, che prega. Sainte-Beuve non s' accorse che in quella amabile folla di spettri, convenuti da tutte le parti del mondo, c' erano altri scrittori, forse i veri eredi di Montaigne, alcuni dei quali egli non conosceva. Ironico e splenetico, c' era in primo luogo Sterne: il Tristram Shandy è gli Essais trasformato in un romanzo-labirinto, con più vuoto, aria e fumo. Un allievo di Sterne, Diderot, derivò dalla voce di Montaigne la voce sfacciata e beffarda del suo Nipote di Rameau. In Aut-Aut, il più grande dei saggisti romantici, Kierkegaard, imparò dagli Essais l' arabesco, la divagazione, la dissonanza, il cambiamento di tono: la linea rotta, spezzata, frantumata, il desiderio di uscire dal libro. Flaubert non assomigliava affatto a Montaigne: eppure il Bouvard e Pécuchet è un monumento all' idiozia umana, costruito a forza di citazioni (come in parte sono gli Essais). Forse il figlio più autentico era l' ultimo, non so se l' ultimissimo, venuto da lontano, da Vienna o da Ginevra, dove attendeva dal suo libro, come Montaigne, la soluzione della propria vita. Era Robert Musil, nella sua triplice uniforme di matematico, ufficiale e Monsieur le Vivisecteur. Quell' architettura aerea e improbabile, quello scetticismo sovrano, quell' amore per l' enciclopedia, quel senso di vuoto, quella incessante divagazione e conversazione, quell' amore per le metafore fisiche che esprimono il pensiero, tutto ciò che regge L' uomo senza qualità, - non è forse un' ultima eco del libro "vario e ondeggiante" scritto nella Torre, tra il gracidio delle oche e l' orizzonte infinito?
-- PIETRO CITATI

venerdì 18 marzo 2011

Tirannide

«Tirannide indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; e a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società che lo ammette, è tirannide; ogni popolo che lo sopporta, è schiavo» (V. Alfieri, Della tirannide, cap. II).