giovedì 28 aprile 2011

il Vecchio indiano

"I swami credono troppo nelle parole", disse. Era come se avesse letto nei miei pensieri e, prima che io dicessi quanto pero' il Vedanta mi aveva aiutato, aggiunse: "Il Vedanta e' un ottimo punto di partenza, ma troppo intellettuale. La vera conoscenza non viene dai libri, neppure da quelli sacri, ma dall'esperienza. Il miglior modo per capire la realta' e' attraverso i sentimenti, l'intuizione, non attraverso l'intelletto. L'intelletto e' limitato."

Non capivo esattamente dove stava; quale fosse la sua posizione. Non vestiva di arancione come i rinunciatari, non aveva sulla fronte il tocco rosso degli indu'; non c'era niente nel suo aspetto, ne' in quel che aveva detto, che indicasse la sua appartenenza a una particolare fede. Allora?

"Vedanta, buddhismo, induismo, jainismo: l'uno non esclude l'altro", rispose. "Questa e' l'India; una civilta' fatta di varie religioni, tutte pero' fondate su alcune idee di fondo che nessuno, da Buddha in poi, ha mai messo in discussione."  Si fermo'; e, guardandomi come per esser sicuro che capivo e che magari le condividevo, si mise a elencare quelle idee:

"Questo non e' il solo mondo", disse, indicando con un ampio gesto del braccio l'intero orizzonte. "Questo non e' il solo tempo", e punto' il dito contro il mio orologio. "Questa non e' la sola vita", e indico' se stesso, me e tutto quel che c'era attorno. Si fermo' come per farci riflettere. "E questa non e' la sola coscienza". Toccandosi il petto concluse: "Cio' che e' fuori e' anche dentro; e cio' che non e' dentro non e' da nessuna parte". Poi come se volesse alleggerire l'atmosfera, scoppio' in una bella risata e, rivolto a me, aggiunse: "Per questo viaggiare non serve. Se uno non ha niente dentro, non trovera' mai niente fuori. E' inutile andare a cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di se'".

Mi sentii colpito. Aveva ragione. 

lunedì 25 aprile 2011

Autodeterminazione

Roberta De Monticelli risponde a mons. Betori e ribadisce il suo addio alla Chiesa cattolica.

Intervista di Emilio Carnevali

Il giorno dopo la pubblicazione sul Foglio del suo “addio” alla Chiesa cattolica, mons. Betori ha voluto risponderle su Avvenire. L’ex segretario della Cei prende le distanze da una posizione che – a suo avviso – gli viene cucita addosso “senza fondamento”. Afferma che la “libertà della coscienza” non può essere confusa con la “possibilità di fare quel che ci pare”. Mentre la prima è la “sede della nostra scelta” – e come tale non può essere contestata – la seconda è un criterio – che non può essere condiviso – dell’azione. Cosa pensa di questa “difesa” delle proprie tesi operata da mons. Betori?
A me pare incredibile che un termine di radice kantiana, come “autodeterminazione” – una variante di “autonomia”, vale a dire “libera soggezione alla legge morale” – possa essere inteso nel senso della “possibilità” (vale a dire, immagino, “liceità morale”) di fare quello che ci pare. Eppure devo arrendermi all’evidenza: non soltanto Mons. Betori, che comunque ringrazio di essersi impegnato in un’esplicita risposta, ma anche altri, nei loro contributi al dibattito che si è aperto, sembrano affermare questa stessa tesi: libertà di coscienza sì, principio di autodeterminazione no. Occorre dunque procedere con la massima chiarezza, non dando assolutamente niente per scontato, e individuare esattamente il luogo del contrasto. Dunque: una prima risposta, limpida ed efficace nella sua brevità, è quella di Vito Mancuso, che ringrazio per essere teologo cattolico e insieme assolutamente estraneo a quella tecnica dell’ambiguità, dello stirare il senso delle parole fino a far loro dire tutto e il contrario di tutto, che se da un lato smorza i conflitti, dall’altro rende impossibile pensare con chiarezza, ed esercitare già fin nell’uso delle parole quella responsabilità personale (rendersi conto di quello che diciamo, farsi carico di giustificarlo) senza cui non c’è etica. Ecco la risposta di Mancuso: “in che senso la libertà di coscienza sarebbe diversa dalla libertà di autodeterminazione? Che cosa se ne fa un uomo di una coscienza libera a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando su se stesso?”.
Ma se non si snida l’equivoco che sta dietro questa opposizione che anche Mancuso riconosce falsa, tutto resterà com’è: un gioco teatrale a colpi di slogan, parole sequestrate dalle opposte ideologie. Occorre dunque fare un po’ di chiarezza sui fondamenti.
Scrive Mons. Betori: “Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna”. Bene: qui – forse per brevità – l’espressione “libertà di coscienza” è curiosamente usata come sinonimo di “libero arbitrio”, come chiarisce l’ultima frase. Se l’assassino non godesse di libero arbitrio, cioè della capacità di auto-determinarsi consapevolmente a un’azione, in presenza di alternative, non potrebbe esserne responsabile, dunque nemmeno imputabile, come non lo sarebbe una tigre. Dunque per essere imputabile e punibile giuridicamente, oltre che moralmente responsabile, l’assassino deve essere certamente anche in grado di autodeterminarsi, e questo lo dice Mons. Betori e non io! Ma non ho nulla da obiettare. Altra faccenda è se si possa descrivere un ordinario assassinio come un caso di azione conforme alle convinzioni e ai più vagliati sentimenti morali dell’agente. Conforme cioè alla sua coscienza morale – perché di questo io parlavo. Io non lo credo, e mi trovo in questo in buona compagnia con l’intera tradizione platonica, patristica, scolastica e perfino biblica: è in qualche modo un’assenza, non una pienezza di coscienza morale (“cuore indurito”, “cecità”, “non sanno quel che si fanno”) ciò che sta alla base dell’azione moralmente illecita. Purtroppo, perché l’esempio di Mons. Betori sia pertinente, occorre invece credere che non ci sia nessuna differenza essenziale fra l’assassino e la persona che, magari dopo aver vagliato fino all’estremo limite di scrupolo e onestà il dettato della propria coscienza morale (se posso fare un esempio per chiarezza: come nel caso di Mina Welby), fa una sua scelta, conforme a questo dettato. A me la convinzione che tra questi due casi non ci sia alcuna differenza essenziale continua a sembrare un esempio di nichilismo. Ma anche Mons. Betori è in buona compagnia, come ciascuno può verificare andandosi a rileggere la dostoevskiana Leggenda del Grande Inquisitore, dove il “nichilismo pietoso” del protagonista tende la mano agli uomini-bambini: incapaci di distinguere il bene e il male, incapaci di sopportare il peso delle proprie scelte, incapaci di convinzioni valoriali e morali. E rimprovera Cristo: “E’ forse costituita in modo, la natura umana, che...nei momenti dei più tremendi, dei più laceranti e fondamentali quesiti dell’anima, possa rimanersene sola con la libera decisione del cuore?”

Quando però Betori afferma che il “principio di autodeterminazione” non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa in fondo ha ragione…
Se è per questo le cose, in effetti, non sono andate molto meglio con la libertà di coscienza, che il Magistero ecclesiastico riconobbe soltanto in chiusura del Concilio Vaticano II (Dignitatis humanae): e riconobbe allora anche la raggiunta maturità morale dell’uomo, della persona umana in quanto tale. Riconobbe cioè la dolce luce dei Lumi e di Kant, sia pure con un paio di secoli di ritardo e dopo le condanne veementi del 1832 (Gregorio XVI, “Mirari vos”), del 1864 (Pio IX, il Sillabo), o l’incredibile eppur reale scomunica al senatore del Regno Alessandro Manzoni. Ma a me pare che l’antimodernismo odierno sia molto più avvolgente e sinuoso, molto più … avvelenato, mi si perdoni la parola, perché legato a filo doppio con una rinnovata tendenza a sabotare i fondamenti di una cultura della responsabilità personale. Quella che è sempre mancata al nostro Paese, e la cui mancanza produce il disastro civile e morale cui assistiamo quotidianamente. Una tendenza che ha oggi davvero del diabolico, perché – insisto – affonda la sua radice nuova in pieno nichilismo.
Non ho citato a caso il Grande Inquisitore, benché io sia convinta che questa figura dostoevskiana non si riduca affatto al rappresentante per antonomasia della Chiesa cattolica, certamente non amata da Dostoevskij. Il Grande Inquisitore potrebbe ben figurare fra i grandi disincantati cui si rivolge lo Zarathustra di Nietzsche, coloro che “hanno visto tutto”, ma non hanno ancora forse superato la compassione per l’uomo. Non lo dico per divagare con la letteratura, ma per sottolineare la differenza fra l’antimodernismo tradizionale della Chiesa e quello, diciamo, recente, cioè posteriore al (neutralizzato) Concilio Vaticano II. E’ vero, Monsignor Betori parla di una“cultura dell’autodeterminazione che va contro le radici cristiane della nostra cultura”, e in questo modo sottolinea la continuità fra la Chiesa che si è opposta, fino al Concilio Vaticano Secondo, anche alla libertà di coscienza - e quella che è venuta dopo. Ma guardate come il Magistero interpreta oggi quella “libera decisione del cuore” che – possiamo dubitarne? – è condizione necessaria perché un atto abbia valore morale positivo. La interpreta esattamente come fa il Grande Inquisitore. Cioè come fosse la pretesa di creare, con la propria decisione, il bene e il male. Come fosse la pretesa che ciò che io decido sia bene, tale sia anche. Che è esattamente il contrario di ciò che da anni vado dicendo, e questo è pochissimo importante; ma soprattutto – e questo invece è madornale – è il contrario di quello che ci fa intendere il Cristo quando dice “Thalita kumi”, “svegliati fanciulla”. Quando chiede all’anima di risvegliarsi, di vedere e sentire quanto belli possono essere i gigli dei campi o quanto male è dare scandalo a un bambino, e di rabbrividire di questi atti perché sente e vede (“chi ha orecchi per intendere…”), e non perché un altro o la Sharia o una legge dello stato glielo comanda. Ma oltre al Cristo, è il dolce lume della nostra maturità morale, orrendamente tradito dai relativismi, i fideismi tragici, i nichilismi, i decisionismi, le teopolitiche totalitarie del secolo scorso, che ci chiede di fondare la norma morale sulla percezione di valore, su un vederci chiaro del cuore e della mente, e non sull’autorità di un altro, fosse pure il Papa. A meno che non ci si venga a dire – perché davvero le sorprese non hanno fine – che per la bontà di un’azione non conta che il cuore vi assenta come a cosa giusta. Per esempio, se una donna cristiana come Mina Welby, nella sua estrema onestà e sincerità, non avesse sentito come cosa giusta, avendola vagliata in lunghi anni, che a un uomo fosse negato il diritto di rifiutare le cure, sarebbe stato moralmente valido piegarsi all’autorità che le ingiungeva di giudicarla giusta? E’ quello che Betori suggerisce: e io non dovrei considerare nichilistico un simile atteggiamento? E’ ovvio che il cuore può sbagliare, ed è verissimo che il cristianesimo ci insegna in primo luogo a dubitare di noi stessi e della trave nel nostro occhio. Vuol forse dire questo che non dobbiamo poter vagliare con la nostra testa e il nostro cuore qualunque decisione che dobbiamo prendere? E non è, come mi sembrava di aver scritto chiaramente, precisamente perché, anche dove la legge non interviene, si può agire in un modo o nel modo contrario, che agire bene (cioè secondo ciò che è moralmente dovuto) ha un valore morale, e agire santamente, cioè oltre ciò che è moralmente dovuto, può essere sublime? Ma una cosa buona o una sublime può mai farsi per forza, perché è proibito fare altrimenti? Che valore morale avrebbe un’azione fatta non per convinzione ma per rispettare la legge?
Ma torniamo al punto. E’ incredibile come uomini di Chiesa, e fra questi fini commentatori della Bibbia, accettino l’alleanza con un pensiero – come quello di quell’Odo Marquard citato da Ferrara nella sua risposta al mio intervento – per il quale la libertà di coscienza e di autodeterminazione morale equivale a bandire il trascendente dal nostro orizzonte, sostituendo il proprio arbitrio soggettivo a Dio. Questa è una tesi storicamente e filosoficamente falsa. Quando chiedo – con tutta intera la tradizione filosofica e teologica cristiana – di poter vedere le ragioni per le quali un’azione è retta (Anselmo d’Aosta) e l’opposta no, per regolarmi di conseguenza portando tutta intera la responsabilità dei miei eventuali errori, è forse perché voglio mettermi al posto di Dio, “autoprodurre il bene e il male”, come scrive il Patriarca di Venezia (“Il Foglio”, 3 ottobre 2008, articolo di M. Burini)? Ma come si può aver dimenticato che proprio al contrario, per liberare dall’arbitrio del potere e dalla sudditanza servile o infantile la coscienza morale – almeno la coscienza morale (ma anche la grazia di poter prestare ascolto al soffio del divino, per chi l’ha) abbiamo riconosciuto alla coscienza di ogni persona umana adulta, indipendentemente da sesso religione o non religione, il diritto-dovere di chiedersi in ogni istante della vita: “perché”? Questa domanda è la profonda radice comune dell’etica e della logica: e non è nichilismo quello di chi non ci crede capaci ne dell’una né dell’altra? Ma andiamo alla radice delle cose, una volta per tutte!
Oggi il linguaggio delle gerarchie, a partire dallo stesso Papa, fa leva precisamente sulla tesi che “se Dio non c’è tutto è permesso” – che è precisamente la premessa nichilistica del ragionamento del Grande Inquisitore. Il nichilismo, attenzione, non sta affatto nell’ipotesi che Dio non ci sia – ci mancherebbe! Perché se questa ipotesi, o l’ipotesi che ci sia, qualunque cosa significhino, si potessero confermare o escludere in base alla nostra ragione, non si vede cosa ci starebbe a fare la fede, o la sua assenza – in che cosa si distinguerebbero da opinioni più o meno ragionevolmente ben fondate. Il nichilismo almeno virtuale, invece, sta precisamente nell’intero condizionale – che non a caso torna e ritorna in bocca a certi personaggi dostoevskiani, o nietscheani. “Se Dio non c’è tutto è permesso” vuol dire in primo luogo, nella brutale versione ciellina, che ha il vantaggio della sincerità: “se non sei credente (anzi cattolico) sei moralmente incompetente” – sei virtualmente un assassino. Perciò io Chiesa, dato che tu non hai legge morale, chiederò allo stato di istituire norme giuridiche che sopperiscano alla tua incompetenza morale (sto quasi-citando la tesi di don Angelini, “Il Foglio”, 3.10.08, articolo di Burini). E vuol dire dunque, in secondo luogo: “Se Dio non c’è, dio sono io”. E qui il nichilismo si fa improvvisamente chiaro: quella stessa auto-deificazione che veniva imputata all’uomo moderno (e che invece l’uomo moderno ha strenuamente combattuto, fra l’altro, con la distinzione fra diritto, religione e morale e la critica radicale di ogni teopolitica, tanto è vero che fu il costituzionalista di Hitler, Carl Schmitt, e non gli eredi di Locke, a riportare in auge questo concetto) ora la si vuole rendere addirittura fonte di legislazione, radicando lo Stato e le sue leggi in una confessione religiosa. Bisogna dunque fare “come se Dio ci fosse”: non è questa la tesi del Papa? Dio – cito Giuliano Ferrara – che “come nell’antica e medievale teodicea, porta il fardello del male nel mondo, magari attraverso il suo angelo caduto”. Se no, “niente resta per la fede petrina…niente per la chiesa e per il Papa”. In chiaro: nella legge dello Stato bisogna far posto all’istituzione che rappresenta Dio, anche se non c’è. Sto citando un ateo, che continua a definirsi devoto benché sia difficile capire a cosa. Apprezzo il suo gusto per le battaglie di idee. Ma mi perdonino gli amici che mi hanno rimproverato un eccesso di aggressività, mi perdoni Ferrara stesso: questo non è cinismo, oltre che nichilismo? Affermare che la Chiesa debba governare le coscienze in nome di Dio, e governare anche le decisioni delle persone attraverso le leggi dello Stato, precisamente perché Dio non c’è? E se mi dite che la sua non è la posizione della Chiesa, allora perché molti intellettuali cattolici continuano a ribadirla, inclusa la confusione dell’autonomia morale con l’arbitrio soggettivo? E allora, finiamo di andare a fondo di questo concetto. Perché mai se Dio non c’è tutto dovrebbe essere permesso? Affermarlo è affermare che se Dio non c’è, nessuna cosa ha valore, positivo o negativo: non ci sono cose preziose e fragili che dobbiamo proteggere, non ci sono azioni orrende o anche solo gesti volgari che dobbiamo evitare, e così via. Ma come si può affermare una cosa del genere? Solo a patto che l’esistenza dei valori dipenda da quella di Dio. Ma questo è vero solo se è vero che il bene è tale perché Dio lo vuole, e non invece che Dio (se c’è) vuole il bene perché è bene. Infatti, solo dalla prima segue che se Dio non c’è non c’è niente che sia bene o male in sé. Dalla seconda non segue affatto. Dio vuole il bene perché è bene – se c’è. E se non c’è, il bene di un’infanzia felice resta tale, il male di un’infanzia straziata pure.
Fu Platone, nell’Eutifrone, a mostrare che l’alternativa che poi si chiamò “volontaristica” conduce al nichilismo, ed è la rovina dell’etica. La quale è laica o non è, esattamente per questa ragione: che deve essere sottratta all’arbitrio di coloro che parlano in nome di Dio (e ciascuno porta un dio diverso) e all’autorità non criticamente vagliata della tradizione. E concludo qui la mia risposta alla sua domanda sulla Chiesa cattolica e il principio di autodeterminazione. Tutti i Padri greci – nella misura in cui sono platonici; Agostino; Anselmo; Tommaso; il grande gesuita, libertario in metafisica, Luis de Molina; per non parlare evidentemente di filosofi altrettanto universali come Leibniz (che a mutare idea su questo punto cercò di indurre i Luterani e i Calvinisti): tutti questi maestri hanno seguito Platone nel dilemma dell’Eutifrone. Il bene non è tale perché voluto da Dio, ma Dio vuole il bene perché è bene. Solo pochi fra i filosofi del Novecento europeo – Moritz Schlick, Husserl, Scheler e gli altri fenomenologi, e almeno due grandissimi cristiani come Albert Schweitzer e Dietrich Bonhoeffer – seguirono questa via, che è naturalmente la dolce via dei Lumi.
(Devo aggiungere allora che l’”abissale” e irrazionalistico, cioè volontaristico, fideismo che Ferrara mi attribuisce mi è tanto estraneo quanto il suo vero complemento, la teopolitica?) Quasi tutti gli altri presero l’altra via, considerando “piattamente razionalistica” la tesi platonica, e adottarono le forme moderne del volontarismo: decisionismo, relativismo, fideismo. Negarono che ci fosse verità o falsità, accessibile alla sensibilità e alla ragione puramente umane, in materia di valori e norme. Legarono il giudizio di valore non all’attenta coscienza e alla (perfettibile ricerca di) conoscenza delle persone, ma alla nuda, irrazionale volontà di un soggetto – fosse un soggetto politico nell’arena di un conflitto o di una guerra, fosse questo o quel dio o destino dell’Occidente o dell’Oriente. O ultimamente, con l’ultima generazione di teopolitici, fosse una chiesa. Si poteva sperare che, con una così forte tradizione anti-volontaristica alle spalle, la Chiesa cattolica non seguisse questa maggioranza. E invece l’ha fatto, e lo conferma ogni giorno di più. Per questo ho detto che l’antimodernismo di oggi, certamente in continuità con quello di ieri, ha però un fondamento diverso e peggiore. [...]